L'arte di andare verso la vita, da Eraclito a D'Annunzio, in una massima: “Nel partire, non voltarti”
Nel partire, non voltarti indietro. Dice così il saggio: secondo alcuni si tratterebbe di Pitagora ma qui, seguendo altra via, tendiamo a identificare questa massima come un lacerto di aurea sapienza italica ben più antico del magistero filosofico proveniente dalla Magna Grecia. Julius Evola metteva in collegamento tale indicazione con il culmine dell’esistenza terrena, il momento in cui un autentico vir deve dimostrare d’aver costruito un nucleo spirituale così adamantino da resistere alla prima morte (il varco, la comare, la consigliera del guerriero) e alla seconda (l’Aquila) ovvero a quel cambiamento di stato che provoca la disgregazione della coscienza e il ritorno dei vari elementi individuali nella loro sede originaria (le matrici macrocosmiche). “Non attaccarti a questa vita quando stai morendo”, è la spiegazione evoliana che trova riscontro nelle più alte tradizioni metafisiche degli arya, la nobilitas boreale. Nulla da eccepire, qualcosa da aggiungere.
L’insegnamento può valere per ogni aspetto determinante dell’esistenza, poiché “nello stesso fiume non è dato entrare due volte” (Eraclito): basta pensare al significato profondo dei così detti riti di passaggio: l’adolescente che oltrepassa la soglia dell’età adulta muore al proprio passato, supera la dimensione dell’indistinto e dell’indecidibile, fissa al centro di sé il seme dorato del puer ma lo fa senza portarsi dietro alcun languore o rimpianto (il rimpianto è indecente, diceva bene Nietzsche) per la trascorsa fanciullezza: non si volta indietro perché ha assimilato l’essenziale! Tutto ciò avviene anche quando è il momento di separarsi dalle esperienze comunitarie giunte al crepuscolo, si tratti di sodalizi amicali, professionali o sentimentali perfino, il cui ciclo vitale è biodegradabile come ogni cosa assoggettata alle leggi sublunari. Il guerriero è vigile, agisce strategicamente, sa presagire il momento in cui l’aggregato sottile del gruppo – la somma delle volontà individuali dirette verso il medesimo scopo – comincia a boccheggiare, si raggomitola affamato su se stesso ed entra nello stato larvale, vampiresco. A quel punto è bene ringraziare e chiudere, sigillare e passare oltre. Chi non sappia agire in questo modo diventa nella migliore delle ipotesi un “buon pasto” per il vampiro. Ecco spiegata la qualità ambigua del reducismo, fenomeno diffuso in ogni ambito ma poco studiato nei suoi tratti fondamentali. Esiste il reducismo dell’età scolare, per esempio, che s’insinua nelle bacheche di Facebook e induce gli inavvertiti a riallacciare, dopo alcuni decenni, i contatti desueti con i compagni di classe. Di regola si finisce per organizzare cene desolanti nelle quali riemergono passioni infelici, conti mai regolati, frustrazioni sepolte. E non ne nasce alcunché di buono, anzi non nasce alcunché, semmai riprende a vivacchiare l’ombra silente richiamata dalla latenza della stagione che fu: nulla si crea e nulla si distrugge, molto però si addormenta e non conviene risvegliarlo. Il che vale a maggior ragione per il reducismo politico, una cosa spesso a metà tra il funerale permanente e la seduta spiritica. E’ quel che sta accadendo intorno alle spoglie del Movimento sociale italiano, oggetto di una mostra cui va il nostro rispetto, ma sopra tutto vittima di una contesa della memoria da parte dei protagonisti sopravvissuti e ancora voraci nel pascersi del cadavere psichico neofascista. La meccanica è simile a quella notata qualche settimana fa, dopo che un vecchio commilitone ha pubblicato un articolo dedicato alla comune militanza extraparlamentare risalente ai primi anni Novanta (già di suo inattuale…). Immediatamente si sono ridestati simboli, ricordi, appetiti, protagonismi, buone e cattive fedi tornate in concorso per sfamare una larva altrimenti letargica. Contenti loro… di contraddire una volta in più il sapiente di Efeso: “I cadaveri vanno gettati via più dello sterco” (Eraclito, “Dell’Origine”, Feltrinelli 1993). Il traduttore eracliteo Angelo Tonelli lo spiega con esattezza: “Il frammento è una critica alle cure eccessive che i ricchi di Efeso tributavano ai cadaveri per esibire potenza e sfarzo; e nello stesso tempo un invito – sapienziale, orfico – a non preoccuparsi troppo dell’involucro corporeo, privo ormai di principio vitale. Non escludo che Eraclito invitasse anche a non conservare cadaveri nello spirito, e quindi a seguire il flusso inarrestabile degli eventi con costante apertura al nuovo”, o meglio all’immutabile che nel mondo fenomenico assume alterne forme.
Insomma l’unico reducismo qui bene accetto è quello dei combattenti della Grande guerra che, appena festeggiato Vittorio Veneto, già prefiguravano l’impresa fiumana. Donde la grande stima per il Gabriele d’Annunzio non crepuscolare, un po’ misterico forse, spavaldo e nitido nel congedarsi con queste parole dalla destra storica ormai degenerescente: “Vado verso la vita”. Ecco, dire sì alla vita significa anche questo e non vuol certo dire che ci si debba rassegnare al fatto compiuto. Al contrario: è addirittura un atto di magia, è la base dell’idealismo magico che nega diritto di cittadinanza tanto al quietismo rinunciatario quanto al volontarismo disordinato, conflittuale, dualistico dei moderni. In una frase sola: tu ci sei perché io ti penso, qui e ora, ma poi non più… indietro non ci si volta.
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