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Una lettera d'amore agli Stati Uniti

Paola Peduzzi

Ci manca l'America, ci manca poterla riconoscere al volo, ci manca l’alleanza più bella che c’è

Mi manca l’America. Mi manca l’America del sogno, dell’eccezionalismo, mi manca persino l’America sbruffona, con l’aria di chi sa di essere un riferimento imprescindibile, anche irraggiungibile. Mi manca, mi manca tantissimo. Mi ripeto una frase che scrisse sul Foglio Giuliano Ferrara, quando nel 2017 Donald Trump si era appena insediato e discutevamo di quanta gente fosse andata ad assistere all’inaugurazione del suo mandato: questo presidente è la negazione del secolo americano “ma non sarà un signore con un impossibile riporto, i cui araldi di casa nostra fanno ridere e piangere, e la cui estraneità al meglio dell’Europa, dell’America e della civiltà orientale è acclarata a prima vista, a spiantare un secolo tanto opaco quanto illuminato”.

 

Non sarà facile sopravvivere a un presidente così poco americano, scriveva Ferrara, ma “per sfigurare quel puttanone che si chiama Statua della libertà, credetemi se volete, ci vuol altro”. Da quel giorno, ogni volta che mi manca l’America, mi aggrappo all’idea di quella gran gnocca della Statua della libertà che ci protegge e ci sorveglia, il simbolo potente di un mondo che non può disgregarsi, perché è progresso, è ambizione, è benessere, è libertà, è futuro. Credo davvero che ci voglia altro per ribaltare il ruolo che l’America ha nel mondo e nell’immaginario, e ho una fiducia incrollabile nelle istituzioni americane – le istituzioni della democrazia – e nella loro capacità di resistere agli accidenti della storia.

 

Ma mi manca alzare gli occhi e riconoscerla al volo, l’America, inconfondibile, inamovibile, a volte inarrivabile. E m’innervosisce il brusio che sento sempre più rumoroso sull’America che mostra la sua vera faccia, la sua rabbia cieca, con tutti gli antiamericani che gongolano perché se è brutta, l’America, allora avevano ragione loro. Tra le tante sciagure che questa stagione di stravolgimenti politici mi ha tirato addosso, c’è soprattutto questa: la fatica di amare l’America anche ora che mostra un volto tanto irriconoscibile – o irriconoscibile a me, che non sono americana, che vivo in Europa, che non mi rassegno ai voti di pancia nel mio paese, figurarsi nel paese di altri, che quando vado a Berlino mi emoziono a vedere i pezzettini di muro venduti ovunque, anche nei negozi di souvenir più trash, e non importa se sono tutti falsi: sono il simbolo di quel che eravamo, di quel che siamo diventati, anche grazie all’America. Ecco, da quando è stato eletto Trump, la mia battaglia è diventata questa: restare filoatlantica, custodire il valore, l’esempio americani ora che appaiono tanto stropicciati.

 

Le elezioni di metà mandato servono come primo bilancio: il Trump show ci ha intrattenuti parecchio in questi venti mesi, la trasformazione della Casa Bianca in una “crazytown” è stata trasmessa in diretta tv e Twitter, ogni capriccio è stato registrato, commentato, analizzato. Non so quante volte ho sentito dire: con questo, Trump è finito. Siamo qui invece con la mappa elettorale dell’America in mano a studiare ogni seggio, a spulciare sondaggi con il sopracciglio alzato: l’illusione è l’unica malattia che siamo riusciti a curare. E attorno ritroviamo soltanto disordine.

 

Trump ha un carteggio amoroso con il dittatore nordcoreano, ma a una Merkel e persino a un Macron, sedotto e abbandonato, riserva parole dure: l’Europa si approfitta della generosità americana, non lo possiamo più tollerare. Mi dipingono come un mostro, dice Trump, soltanto perché dico la verità, ma a parte che la parola “verità” sulle labbra del presidente americano ha smesso di avere un significato – 6.420 dichiarazioni false o ingannevoli dette dall’inizio della presidenza, calcola il Washington Post – il messaggio sottostante è doloroso: ogni alleanza deve avere una giustificazione, dovete meritarvelo, l’amore dell’America.

 

Darsi per scontati è un errore nei matrimoni e a maggior ragione nelle alleanze geopolitiche, le sferzate, le dimostrazioni sono salutari, ma quest’America ha introdotto un’incertezza che non c’era, un’instabilità che non c’era: un conto è dimostrare lealtà contribuendo ai conti della Nato o rivedendo alcuni dazi, un altro è doversi rincorrere con il dubbio che arrivi qualcun altro a rovinare un’intesa che dura da decenni. E poi l’alleanza atlantica, l’asse occidentale, l’ordine globale liberale non erano certo un matrimonio di convenienza: era un allineamento di priorità e di valori, una visione del futuro, ci possono essere bisticci anche feroci, ma al fondo c’è sempre stata una corrispondenza insostituibile, trovatela voi un’altra superpotenza come l’America (a chi pensa alla Russia: auguri). Dico “c’era”, ma intendo c’è: il passato serve a cementare il presente, a modificarlo anche, ma non a distruggerlo.

 

Mi aggrappo alla storia, alla gnocca che ci accoglie a New York, bellissima, e alla convinzione che la mancanza – questa mancanza che sento fortissima – è un detonatore formidabile: laddove non arriva la diplomazia, la geopolitica, la consuetudine, arriverà l’orrore di sentirsi soli a casa propria.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi