Obama è il solito fortunato, un ragazzo di nome Love gli ha fatto la dichiarazione d'amore dei sogni
Per il 2016 lo spettacolo è imperdibile, non soltanto perché non c’è un incumbent del quale già sappiamo tutto, ma anche perché c’è da chiudere la stagione obamiana, così piena di amore e disamore, tante illusioni, troppi bruschi risvegli – una relazione complicata.
Mancano seicentoquattordici giorni alle presidenziali americane, cioè un tempo infinito, ma non faccio altro che prepararmi all’evento. Amo le campagne elettorali per la Casa Bianca, perché sono lunghissime ma con appuntamenti precisi, sempre uguali nei secoli, come una serie tv che sai che vedrai a gennaio in Iowa e in un supermartedì di febbraio con tante puntate tutte assieme: è un pianificato corteggiamento del pubblico americano in cui tutto può accadere e tutto accade, si piange, si litiga, ci si insulta, si tradisce, si minaccia, si ritorna, ci si vende, tantissimo, così diversi da come si è, solo per il bisogno di farsi accettare e applaudire e ricordare (per questo poi governare è così noioso, è il momento in cui ti svegli e vorresti aprire la botola).
Per il 2016 lo spettacolo è imperdibile, non soltanto perché non c’è un incumbent del quale già sappiamo tutto, ma anche perché c’è da chiudere la stagione obamiana, così piena di amore e disamore, tante illusioni, troppi bruschi risvegli – una relazione complicata. Le librerie si stanno riempiendo di saggi-retroscena, in cui la Casa Bianca viene raccontata dai suoi protagonisti, per spiegare da vicino che cosa è stato l’obamismo, ribaltando quella sensazione di gelo che in questi anni ci è piombata addosso, superando le critiche feroci che già abbiamo letto disseminate in autobiografie più o meno riuscite: a febbraio arriva il memoir di David Axelrod, lo stratega più riconoscibile di Obama, l’amico di sempre, vent’anni insieme scanditi dalla “fede nel cambiamento democratico”, un lavoraccio. Non potrà essere più bello dei diari del blairiano Alastair Campbell, inarrivabili, ma mi sembrerà comunque di vivere dentro a una puntata di “West Wing” e ci saranno aneddoti da rivendere per i prossimi cent’anni, so che mi accontenterò. Anche perché ora c’è Reggie Love, l’antidoto perfetto per sopravvivere alle discussioni sulla legacy obamiana, tra bilanci finti e permaloserie vere. Love (che con un cognome così leggerei anche se scrivesse ricette) è stato fino al 2011 il “personal aide” di Obama, o come lo ha definito pubblicamente il presidente: il suo “chief of stuff”. Ha iniziato con Obama nel 2005, assunto per 28 mila dollari l’anno dopo che sua madre gli aveva detto di non buttare via il tempo sperando di diventare una star dell’Nba: fu preso da Pete Rouse, allora chief of staff del senatore Obama, perché tra tutti i candidati era riuscito a sistemargli il BlackBerry che non funzionava.
In “Power Forward. My Presidential Education”, il memoir di Love che esce oggi in libreria, il “bodyman” racconta di quella volta che, in campagna elettorale, Obama gli entrò in camera inaspettato, lui era a letto, non solo (anche se ha quasi strozzato la malcapitata con un lenzuolo per non farla parlare), e Obama si scusò e uscì dalla stanza: non avrebbe mai più parlato dell’accaduto. Poi c’è la ramanzina presa dall’allora candidato-presidente, quando Love dimenticò la valigetta di Obama in Florida e se ne accorse una volta atterrato a Washington. Hai lasciato la mia borsa in Florida? Scuse, sguardi increduli. Il giorno dopo, Love era in un angolo mortificato e Obama gli disse: “Senti, se non sei capace di fare questo lavoro, te ne trovo un altro. Ma adesso questo è il tuo mestiere, e se tu non riesci a fare bene il tuo, io non riesco a fare il mio, non posso badare a tutto quel che mi porto dietro”. Altre scuse, altri sguardi, ora meno increduli, e poi il lieto fine: Obama gli diede un’altra chance (se ricordate immagini con Obama con sempre in mano qualcosa, la colpa non è della distrazione di Love o della sfiducia del suo capo: è che “anche Kennedy portava sempre da solo la sua borsa”). Così Love è diventato l’ombra del presidente e, documenti persi o no, Obama è un uomo davvero fortunato, perché una dichiarazione d’amore come quella che ha scritto questo ragazzo alto due metri ottimo come compagno nelle sfide a basket Obama non la riceverà mai da nessuno: “Ero il suo dj, il suo Kindle, il suo agente di viaggio, il suo valet, l’allenatore di basket delle sue figlie, il suo sacco da boxe, la sua sveglia, il suo distributore automatico, il suo spacciatore di appunti, il suo compagno a carte, il suo organizzatore di feste, il suo partner in palestra, il suo fornitore di cibo, il suo cuscinetto di protezione, il suo gatekeeper, il suo fratello surrogato, e infine il suo amico”. Altro che mogli, altro che mariti, altro che botole.