New York non è male come riva del fiume su cui aspettare che passi il cadavere. Poi però non piangere
Non è bello immaginarselo da anni sulla riva del fiume che aspetta che passi il cadavere di suo fratello per poter tornare a essere quello che era, il miglior blairiano su piazza, intelligente, carino, competente. Non è bello, ma forse è davvero lì che abita David Miliband. La sua scomparsa dalla scena politica inglese nel 2010 era stata brutale, fu scaraventato fuori dal fratello, Ed Miliband, nella gara per la leadership del Labour, con traumi familiari di cui abbiamo saputo sempre troppo poco. Il giorno in cui Ed vinse, la moglie di David scoppiò a piangere, Ed la vide, non disse niente, nemmeno una parola, mentre la mamma, la meravigliosa Marion Kozak, era stata a casa, troppo penoso doversi trovare lì in diretta, congratularsi con un figlio e consolare quell’altro, non c’è madre al mondo che possa farcela, nemmeno una come lei che è pur sempre una sopravvissuta dell’Olocausto. Poi David non accettò l’incarico che suo fratello gli offrì nel governo ombra, fece i bagagli, si trasferì a New York, umore nero, sorrisi forzati, poi un nuovo lavoro, al prestigioso International Rescue Committee, con i giornali inglesi che lo tormentavano: in America nessuno sa chi è!, titolavano i tabloid, pubblicando le foto di David e famiglia ai giardinetti. “Un rifugiato”, avrebbe ironizzato qualche tempo dopo l’ex segretario di stato Madeleine Albright, sua amica – come amici del Miliband sconfitto sono quasi tutti i clintoniani.
Domenica David Miliband era sulla cover del magazine del Sunday Times, enorme in mezzo ai grattacieli, con il titolo: “Celebrity Big Brother”, e un articolo su come è riuscito a conquistare New York – la riva del suo fiume. A Londra ci sono stati dei mancamenti, molti si erano convinti che David Miliband fosse ormai fuori dal giro, alcuni lo dicevano con un certo fastidio: quello sta in America, e se ne frega; altri, cioè i fan di suo fratello (se così si possono chiamare, definiamoli quelli contro Blair che fanno più massa), ne parlavano appena, ma sempre con malcelato sollievo. Ora invece si scopre che Miliband ha smesso di parlare dei figli che si fermano a fissare qualsiasi cosa come se fossero sulla luna né cita più i traumi da trasloco e la prima notte senza asciugamani, ma va in televisione a discutere di aiuti umanitari, Ebola, tantissimo di Siria e della guerra non fatta (si noti che il fratellino votò contro l’intervento inglese contro Assad nel 2012), organizza incontri e cene, tutto il mondo della sinistra anni Novanta nata sull’asse Clinton-Blair ha trovato nel Miliband scappato il suo punto di riferimento. Nessuno, nemmeno gli amici più intimi, ha il coraggio di chiedergli se vuol tornare a Londra a fare politica, se Ed Miliband dovesse perdere le elezioni di maggio, ma da quel che dicono tutti quelli che lo conoscono non c’è dubbio: vuole tornare (lui disse in passato che non si immagina di vivere per sempre negli Stati Uniti, e già allora la frase suonò minacciosa). David Miliband incarna quel che il Labour avrebbe potuto essere e non è stato, e non si tratta soltanto di nostalgia blairiana, ma di idee per una sinistra che vuole proiettare nel futuro i successi del suo passato recente più glorioso (è una lezione che non vale soltanto per il Regno Unito). L’unico problema è che a David manca la cattiveria: quando era ministro degli Esteri nel governo di Gordon Brown pareva sempre pronto a fare un golpe interno che in realtà non ha mai avuto il coraggio di portare a termine. Nello scontro con il fratello, è stato subito chiaro chi dei due fosse il cattivo. Ora non ci sono più alternative: non puoi abitare sulla riva del fiume e poi, quando passa il cadavere, metterti a piangere.