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La Brexit, ovvero l'illusione di un divorzio educato nel paese con la più alta litigiosità del mondo

Paola Peduzzi
A Westminster il clima è vendicativo: i parlamentari sono offesi perché la May vuol fare tutto da sé, non dice mai nulla, gestisce il negoziato e i suoi termini per conto suo.

    Il momento in cui si pensava che Theresa May, con i suoi pochi fronzoli e la sua molta determinazione, potesse curare le ferite delle Brexit è passato, sfuggito, finito. Il premier dell’unità con il mandato di riunire le due anime del Partito conservatore spezzate dal referendum sull’Unione europea non ha alcuna volontà riunificatrice: va per la sua strada, chi mi ama mi segua, chi non mi ama faccia il favore di tacere. Il tasso di litigiosità della politica britannica è tornato alto, e forse è stato ingenuo pensare che di fronte al più grande divorzio della storia geopolitica contemporanea si potesse rimanere pacati e dignitosi, e lasciare la faccenda ai più tecnici e ai più volenterosi. Non è tanto il rimpianto di quel che poteva essere e non è stato – un matrimonio come tanti altri, si litiga, si fa pace, si torna a casa alla sera – a far salire il livello del confronto, quanto piuttosto la volontà di infilare in questo divorzio tutte le ambizioni politiche di una vita, tutte assieme, tutte senza possibilità di discussione. E le personalità in gioco, qui, non sono di quelle che metti a tacere in fretta, ognuno rivendica una propria visibilità, ed è pronto a tutto pur di ottenerla.

     

    A Westminster il clima è vendicativo: i parlamentari sono offesi perché la May vuol fare tutto da sé, non dice mai nulla, gestisce il negoziato e i suoi termini per conto suo – o con il suo ristretto “inner circle” di governo – e appena lascia trapelare qualcosa si tratta della versione “atomica” della Brexit, quella che sfascia tutto quel che era in piedi, e chi vivrà vedrà. Il redivivo Ed Miliband conduce la battaglia parlamentare contro la cosiddetta “hard Brexit” – l’uscita dal mercato unico europeo, che pare sia l’opzione favorita dalla May – rivendicando il diritto di Westminster di dire la propria opinione e di giudicare l’operato del premier: a lui si è unito Nick Clegg, ex leader dei liberaldemocratici, e l’ironia sull’unione di due leader perdenti contro il bulldozer May è soltanto all’inizio (se li mangia vivi, dicono).

     

    Sul fronte conservatore, due protagonisti della campagna per il divorzio dall’Ue sono tornati a farsi sentire. Uno è Steve Hilton, ex consigliere dell’ex premier David Cameron che si era dissociato dal capo-amico e aveva fatto campagna per la Brexit, con critiche affilate nei confronti di Cameron. Tra tutti i tradimenti che l’ex premier ha subìto durante la campagna referendaria, quello di Hilton è stato il più doloroso: l’ascesa politica di Cameron era stata costruita insieme, i due erano l’anima della rifondazione del Partito conservatore. Domenica sul Sunday Times, Hilton non è tornato sui suoi passi – è pur sempre sinceramente a favore della Brexit – ma ha scritto che la faccia che sta assumendo questa Brexit è “ripugnante”, soprattutto per quel che riguarda la questione dell’immigrazione. Il bersaglio diretto non è tanto la May quanto il suo scudo, la signora che ha preso il suo posto, quell’Amber Rudd che ora fa il ministro dell’Interno (e che per noi resterà sempre la ex moglie di quel genio che si chiama AA Gill, scrittore, editorialista, punto di riferimento della cultura inglese) e che ha introdotto l’idea che le aziende inizino a fare il registro dei dipendenti stranieri.

     

    Questa Brexit così non piace a chi immaginava un riscatto per il Regno Unito, i sostenitori della “open Brexit”, ultima variazione su un tema che ancora non è stato definito. Michael Gove, ex ministro della Giustizia a favore dell’uscita dell’Ue, ha rilasciato nel fine settimana la sua prima intervista dopo una serie di tradimenti invero brutali: prima nei confronti di David Cameron, poi nei confronti di Boris Johnson, compagno d’avventura nella Brexit poi scavalcato nel momento in cui bisognava candidarsi per la successione di Cameron. Nell’intervista non si capisce bene perché Gove abbia deciso di non sostenere Boris – cosa che gli è costato parecchio: Boris non si è candidato, a vincere è stata la May che già detestava Gove: il risultato è che ora l’ex ministro s’è rimesso a scrivere la sua column sul Times – e riesce soltanto a dire di aver fatto “calcoli sbagliati”, giustificazione che non spiega nulla e lascia soltanto l’idea che ci sia ancora molto da scoprire su come siano andate davvero le cose. Gove non vuole aprire nuove faide, ma si riposiziona: sono qui, intanto. Così si scopre che anche i tradimenti imperdonabili in realtà poi possono essere superati, col tempo e con le buone maniere, ma che invece i divorzi liberali no, non esistono.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi