un sostenitore di Donald Trump davanti al Campidoglio (foto LaPresse)

I biscotti e le amiche di Rebekah Mercer, la rampolla della famiglia che fa da custode al trumpismo

Paola Peduzzi

Decifrare Donald Trump sarà un’attività che ci terrà occupati a lungo, già il mondo si divide in chi crede nella normalizzazione del prossimo presidente degli Stati Uniti e chi dice che è impossibile, Trump non sarà mai normale (il secondo gruppo è naturalmente il più nutrito, è lo stesso che condivide le proteste di piazza contro Trump, è lo stesso che spera che i grandi elettori sfruttino la benedizione dell’assenza di un vincolo di mandato e il 19 dicembre non votino per Trump presidente, ribaltando l’esito dell’8 novembre, è lo stesso che ha reso virale il video di Christoph Waltz in cui dice: siete pazzi, non si può normalizzare nulla, non si può dimenticare nulla, non provateci proprio). La definizione del team per la transizione alla Casa Bianca è intanto però uno strumento utile per cercare di capire qualcosa di questa presidenza che verrà: ci sono tre gruppi rappresentati, uno è quello della famiglia (inossidabile, anche se viene da pensare che tutte le dinastie s’assomiglino: litigheranno pure i fratelli Trump, no?), un altro è quello dei membri del Partito repubblicano armati di bende e cerotti e buona volontà, e il terzo è quello dei finanziatori.

 

Tra questi c’è l’unica donna del team, Rebekah – detta Bekah – Mercer, quarantaduenne rampolla della famiglia Mercer, guidata dal padre Robert, mago degli hedge fund che, secondo Forbes, ha guadagnato 150 milioni di dollari soltanto lo scorso anno (il suo fondo Renaissance Technologies è stato definito da Bloomberg “uno dei più profittevoli della storia” di Wall Street).

 

Rebekah, fronte alta e occhiali vistosi, è la seconda delle tre figlie di Mercer, ed è considerata l’anima operativa della famiglia che ha investito grandemente nel Partito repubblicano, prima tendenza Ted Cruz (è lì che Bekah è diventata amica della campaign manager di Trump, Kellyanne Conway) e poi decisamente, felicemente trumpiana. Uno dei più noti investimenti della famiglia è il sito Breitbart, creatura di quel Steve Bannon che da agosto scorso gestisce la comunicazione di Trump e che ora andrà alla Casa Bianca con lui come consigliere strategico. Steve Bannon collabora con la Mercer da tempo: hanno fondato insieme un sito che si chiama “Reclaim New York”, che chiede la trasparenza sulle spese del municipio e invita i cittadini a fare da “controllori” e a denunciare errori o distorsioni.

 

Rebekah Mercer è sposata con Sylvain Mirochnikoff, managing director di Morgan Stanley di origini francesi, ha quattro figli – che non vanno a scuola: hanno tutori in casa –, vive in un palazzo trumpiano di New York e gestisce assieme alle sorelle un sito di biscotti gourmet (la loro pasticceria preferita era in vendita, non volevano che chiudesse, la rilevarono e iniziarono l’attività online). Cresciuta nella periferia di New York, a Yorktown Heights, quando suo padre lavorava all’Ibm, non era ancora diventato miliardario ma era uno scienziato appassionato di numeri e dati, Bekah ha lavorato brevemente a Wall Street (dove ha incontrato il marito) ma soprattutto ha iniziato presto a frequentare circoli conservatori e libertari, è entrata come “trustee” in alcuni think tank e ha gestito la fondazione di famiglia che nei suoi cinque anni di vita ha donato al Partito repubblicano e ai gruppi collegati 35 milioni di dollari.

 

I Mercer sono da tempo molto critici rispetto all’establishment del Gop: il Washington Post ha raccontato che Rebekah fu notata da tutti (che allora chiedevano: chi è questa?) nel 2012, quando all’University Club di New York si tenne un incontro di investitori conservatori per analizzare la sconfitta di Mitt Romney alle presidenziali. Nel suo intervento, Rebekah fu durissima nei confronti della macchina elettorale del Partito repubblicano, che secondo lei era tecnologicamente e operativamente arretrata e staccata dalla realtà. Non è un caso che i Mercer siano gli investitori principali della Cambridge Analytica, la compagnia di dati che usa modelli “psicografici” per targetizzare gli elettori e che ha intercettato il “fervore trumpiano” molto meglio dei sondaggisti storici e di quelli più recenti ma famosissimi: i suoi dipendenti, che sono dodici e lavorano tra New York e San Antonio, ripetevano da mesi che i sondaggi e le rilevazioni erano compresi nei margini d’errore, “può finire in qualsiasi modo”.

 

Durante la campagna elettorale, la Mercer ha preso la guida del superPac legato a Trump chiamato “Make America Number 1”, al quale il padre ha dato in dote due milioni di dollari, e che si è specializzato in spot pubblicitari contro Hillary Clinton. Non ne ha mai prodotti a favore di Trump, in compenso si è scatenato contro l’ex candidata democratica, contro cui i Mercer combattono da anni: hanno finanziato, tanto per fare un esempio, il libro distruttivo di Peter Schweizer “Clinton Cash” e il documentario che ne è stato tratto – si è trattato di un altro scontro di potere dentro la variegata New York, la città in cui tutti sono stati almeno per un po’ amici e poi per sempre rivali. Mercer è una che parla poco, che declina le richieste di interviste, che appena può corre a casa dai figli, esattamente come Kellyanne Conway, che ha quattro figli (in New Jersey), e che è stata quasi imposta a Trump ad agosto. Dicono che il trumpismo ricomincerà da qui, ironia assoluta: dalle donne.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi