I giudici della corte suprema inglese che dovranno decidere sull'attivazione dell'articolo 50 per l'attivazione della Brexit (foto LaPresse)

La Brexit finisce davanti ai giudici supremi, tra minacce, mogli, scienziati e assenza di parrucche

Paola Peduzzi

Roba da morire di noia, se non fosse che ci sono alcuni personaggi interessanti, e i risvolti politici sono decisivi

Ieri è iniziato il dibattito alla Corte suprema inglese sul ruolo del Parlamento nell’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che apre il negoziato di divorzio tra Londra e Bruxelles in vista della Brexit. E’ stato il premier, Theresa May, a chiedere l’intervento della più alta corte del Regno, dopo che i giudici della Corte d’appello avevano stabilito che il governo non può operare da solo, ci deve essere anche un voto parlamentare. I giudici della Corte suprema – sono undici, uno si è dimesso l’estate scorsa – non erano abituati a tanta visibilità, dopo quattro giorni di streaming saranno distrutti: già ieri tra battute, telecamere e pressioni sembravano stremati (e la cosa più scandalosa è che non hanno la parrucca). Gli inglesi sono curiosissimi, alcuni hanno scoperto soltanto nell’ultimo mese di avere addirittura una Corte suprema. Non si tratta però della solita ignoranza che ormai viene additata come la causa assoluta dell’involuzione che ci attornia: la Corte è stata istituita nel 2005, ha iniziato a riunirsi e a lavorare nel 2009, ha competenze molto più limitate delle corti di questo livello – in Italia è la Corte costituzionale – in altri paesi.

 

Tra tutti gli accidenti che la Brexit ha portato al Regno Unito e all’Europa c’è anche quello di doversi occupare del sistema delle competenze britannico (già sull’Italia abbiamo studiato parecchio, anche se inutilmente, visto che la Costituzione resta com’è, bye bye snellezza e flessibilità), e ieri se n’è già avuto un assaggio in aula, con discussioni infinite su quel che può fare il governo, su quel che può fare il Parlamento, su quel che fanno i giudici e naturalmente come i diritti acquisiti a livello europeo influenzano la giurisprudenza inglese. Roba da morire di noia, se non fosse che ci sono alcuni personaggi interessanti, e i risvolti politici sono decisivi. Il presidente della Corte, Lord Neuberger, è uno che ha studiato chimica a Oxford perché in famiglia sono tutti scienziati (o rabbini), ma dice di non averci capito mai molto, così sperava di entrare nell’alta finanza e levarsi di torno il parentado secchione e invece s’è ritrovato a fare il giudice, ora di un Corte che lui stesso aveva definito “la creazione di una decisione last minute davanti a un bicchiere di whisky”.

 


Lord Neuberger (foto LaPresse)


 

Il simpatico Lord Neuberger è stato già accusato dai pro Brexit di non essere sufficientemente imparziale (qualcuno gli ha chiesto di non partecipare a questa sessione), perché sua moglie, Angela Holdsworth, è stata molto attiva su Twitter contro l’uscita del Regno Unito dall’Ue, ha definito il referendum “mad and bad” e ha esultato quando i tre parrucconi dell’Alta corte hanno detto che senza Parlamento la Brexit non s’ha da fare. Lord Neuberger ha iniziato il dibattito ribadendo che la Corte si occupa di legge e non di politica (e vale anche per le mogli), dicendo che ci sono state molte minacce contro chi si oppone alla Brexit, e questo è disdicevole. Ma mentre molti sognano di vedere da vicino uno degli “attivisti” che hanno portato il caso davanti ai tribunali, il parrucchiere Deir Dos Santos (che probabilmente non comparirà, purtroppo), dopo una giornata siamo già tutti più esperti di modello norvegese, modello canadese e soprattutto del modello groenlandese, che ha preso tutto un altro significato da quando le doti del popolo della Groenlandia sono state celebrate in una puntata di “The Young Pope”.

 

Chissà se tanta cultura sarà utile, visto che la May sta lavorando a una “terza via grigia” sulla Brexit, né hard né soft e comunque mai sperimentata prima, e visto soprattutto che il ruolo del Parlamento nel valutare “la volontà del popolo” non conta oggi, quanto piuttosto tra qualche tempo. Se anche i deputati dovessero avere voce in capitolo sull’attivazione entro marzo dell’articolo 50, pare che non ci sarebbero troppi intoppi: nessun politico si prende ora la responsabilità di ribaltare all’interno del Palazzo l’esito referendario, chi le vince più senò le elezioni? Il problema semmai arriverà tra due anni, quando la May avrà finito il negoziato e, se il Parlamento ha voce in capitolo, dovrà farlo votare in aula. E’ a quel punto che il conflitto tra governo, parlamentari, giudici ed europei potrebbe esplodere. L’articolo 50 prevede che se il paese che vuole uscire dall’Ue e l’Ue non raggiungono un accordo – o se il Parlamento inglese, stabilito che ne ha diritto, vota contro – si applicano le regole più dure della separazione. Sarebbe “hard Brexit” insomma, ironia suprema di questa corsa per risolvere la Brexit in tribunale.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi