Un esperimento femminista in Islanda e una regola per tutti
Sull'isola la campagna #metoo è condivisa da uomini e donne, non c’è la caccia al maschio e non c’è la presunzione che le donne si comportino sempre in modo corretto
Katrin Bennhold, corrispondente in Europa del New York Times, prima da Parigi e ora da Londra, ha fatto un esperimento: per ventiquattro ore ha seguito (in accordo con lui) Xavier Prats Monné, lo spagnolo che guida il dipartimento della Salute e della Sicurezza alimentare della Commissione europea, in vista a Reykjavik per parlare al Women Political Leaders Global Forum, l’incontro che ha riunito quattrocento leader donne, tra politica e imprenditoria, provenienti da tutto il mondo. Quello “diverso” era Prats Monné, e la Bennhold era curiosa di sapere: come si sente un uomo quando è in minoranza? In imbarazzo, a volte. All’aeroporto, il sessantenne spagnolo non è riuscito a farsi aiutare con il bagaglio dall’autista (una donna), che lo ha accompagnato nella trasferta, “no no no no no, grazie”, faccio da solo. Erla, l’autista islandese, racconta che in casa sua il papà ha sempre fatto il casalingo e la mamma usciva a orari improbabili per i turni da infermiera, era lei che portava a casa lo stipendio e manteneva la famiglia. Questa è l’Islanda, trecentotrentamila persone che costituiscono una “piccola gender utopia” che si piazza sempre prima nelle classifiche dei paesi che più rispettano l’uguaglianza di genere, ricorda la Bennhold, dove nel 2009 è stata eletta la prima lesbica-primo ministro del globo, dove il materiale pornografico è bandito dal 1869, dove otto donne su dieci hanno un impiego retribuito, dove le differenze di salario tra uomini e donne saranno compensate completamente entro il 2020, dove la presidente ha 87 anni ed è chiamata per nome, Vigidis, che in lingua norrena vuol dire “dea”, dove il congedo parentale è uguale per madre e padre, dove ci sono le quote rosa, e dove è appena stata nominata premier l’ambientalista Katrin Jakobsdottir, quarantuno anni, un marito, tre figli e l’aria da ragazzina, che guida una coalizione che comprende quasi tutti i partiti islandesi e che da molto tempo è considerata la politica più credibile e amata del paese.
Come è andato l’esperimento? Come doveva andare, mettersi di traverso all’utopia, davanti a tante donne tutte insieme poi, sarebbe stato impensabile. Prats Monné dice che è tutto molto bello e molto allegro, che se incontri un uomo in questi consessi ti sembra sempre “il bidello” (molti collaboratori delle delegate sono uomini, e alcuni sono lì con la borsa e il cappotto del boss in mano, e chiacchierano), che “il soffitto di cristallo non esiste, esiste soltanto un grande e grosso strato di uomini” che un giorno non conterà più molto, o conterà per quel che davvero gli spetta, che non si può che essere femministi, “il contrario del femminismo è l’ignoranza”. Anche in Islanda c’è stato uno scandalo sessuale, una deputata ventisette, Aslaug Sigurbjörnsdottir, è andata in tv a denunciare le accuse che le sono state rivolte – di concedersi sessualmente per fare carriera – e un uomo che l’ha palpeggiata più volte. Un banchiere, Ragnar Önundarson, ha messo su Facebook una foto che aveva postato la deputata, con i capelli sciolti, un po’ meno brava ragazza della sua foto ufficiale: “Vorrei che riflettessi sull’immagine che dai di te”.
Al Forum giravano le magliette con scritto “Non essere come Ragnar”, una petizione a sostegno della deputata ha già raccolto più di cinquecento firme. La campagna #metoo qui è condivisa da uomini e donne, non c’è la caccia al maschio, non c’è la presunzione che le donne si comportino sempre in modo corretto, c’è l’uguaglianza nei discorsi, nella vita quotidiana, una storia di eguaglianza che ha avuto anche i suoi momenti bui, nel secolo scorso, e che ora sono in via di risoluzione. C’entrano il welfare, l’investimento culturale, ma anche un approccio al lavoro e al riconoscimento sociale che è lontano anni luce da piagnistei, rappresaglie, istinti di vendetta. Certo, l’Islanda è un’isola piccola, gelida, lontanissima, è più facile, no? Ma il segreto del suo successo d’uguaglianza è un motto che in italiano non suona altrettanto forte, e che in inglese si capisce benissimo, e che è anche esportabile, senza troppe riflessioni né troppi tormenti: “Walk the walk, don’t just talk the talk”.