Il tecnico dell'Inghilterra, Gareth Southgate (foto LaPresse)

Il sogno stropicciato dell'Inghilterra

Paola Peduzzi

Southgate, il mondo intorno che dice “non ce la farai mai” e il fantasma di una nazione da scacciare via

C’è un che di romantico e di stropicciato nei leader che il mondo britannico si è scelto in questi anni Duemila pieni di stravolgimenti e sorprese e rimpianti. Quando venne giù la City – lo choc finanziario del 2008, uomini e donne per strada con sguardi spaesati, com’è che tutta una vita sta dentro a uno scatolone tanto leggero? – era appena arrivato a Downing Street Gordon Brown, con la sua aria burbera e poco compassionevole. Aveva aspettato tanto, Brown, e quando finalmente è stato il suo turno si è trovato col mondo capovolto, l’economia della finanza e delle banche e delle libertà da salvare con i soldi dello stato, e l’idea di capitalismo e di ricchezza stropicciata lì sotto, non l’abbiamo ancora salvata. Nemmeno Brown si è salvato, tecnico preparatissimo che passa alla storia per aver guidato il Regno Unito in anni sciagurati, in cui tutto stava cambiando ma facevamo fatica a comprenderlo, tanto eravamo rapiti dall’epica dell’attesa, dalla tragedia dell’attesa.

 

Brown perse le elezioni, arrivò David Cameron, con la sua aria sbruffona e prepotente, eppure così stropicciato, pure lui: non soltanto perché è passato alla storia come il premier che ha portato il Regno alla Brexit, e ora ogni volta che parla viene insultato come nemmeno Blair; non soltanto perché quel sogno di rifondazione della destra britannica si è schiantato contro l’Europa e non c’è modo di ricordare altro del cameronismo se non il divorzio. Ma anche perché la vita privata di Cameron ogni tanto usciva dal suo sguardo, e da quella sua favola di ragazzo di buona famiglia al quale ogni cosa va per il verso giusto: si vedeva il dolore, assoluto e invincibile, per il suo primogenito morto dopo anni di malattia, e la moglie Samantha che per mesi non è stata da nessuna parte, se non sulla tomba di suo figlio. Con Theresa May le pieghe si vedono a occhio nudo, non c’è bisogno di andare a cercare nella vita personale (anche se alcuni dettagli ci sono), è tutto lì davanti a noi, ma anche se l’attuale premier sta simpatica a pochissimi, a nessuno sfugge la sua capacità di resistenza: non è soltanto attaccamento al potere, è una forza tutta sua, romantica e stropicciata assieme, che la fa rimanere lì a giocarsi faccia e futuro in una guerra civile che non si riesce a vincere.

 

E ora c’è Gareth Southgate, l’allenatore della squadra inglese ai Mondiali, elegante, educato, affilato, che per anni si è definito “l’uomo che ha posto fine al sogno di una nazione”. Alla semifinale degli Europei del 1996, Southgate, che aveva 25 anni e giocava come difensore, sbagliò il rigore decisivo, e l’Inghilterra uscì dalla competizione. Avete presente quanto si è parlato della “maledizione degli inglesi per i rigori”? Ecco, Southgate ce l’ha appiccicata addosso, quella maledizione: “Tutto è apparso cristallino in un attimo – ha scritto nell’autobiografia pubblicata nel 2003, “Woody and Nord. A Football Friendship” – Ho affossato il sogno di una nazione, e ho subito capito che quel rigore avrebbe segnato la mia vita e quello che il resto del mondo avrebbe pensato di me per sempre”.

 

Il sogno finito e una carriera scandita da un esercito di persone pronto a dire: non ce la farai mai. Sei troppo middle class per questo mestiere di calciatore, gli dicevano tutti, troppo gentile, “devi scegliere che cosa vuoi essere nella vita – gli disse un allenatore – E fosse per me saresti perfetto come travel agent”. Southgate era timido, astemio, defilato, odiava il suo naso ed era convinto che non potesse piacere a nessuno: ci mise due anni a dichiararsi ad Alison, la sua attuale moglie e madre dei loro figli adolescenti. Quando sbagliò il rigore nel 1996 era sulla scena internazionale soltanto da nove mesi, e il suo sogno era crollato velocissimo assieme a quello di tutto il Regno.

 

Poi ha iniziato la carriera da allenatore, e nel 2013 è stato assunto alla nazionale under 21 perché aveva un progetto “cuori e menti” per i giocatori, un allenamento non solo di gambe (tantissimi rigori tirati per sentire quella pressione addosso, e vincerla) ma anche di testa per combattere i demoni, ognuno i propri, e insieme quelli di tutti. Southgate è arrivato quasi per caso – uno scandalo di soldi e giornalisti amici ha travolto il suo predecessore, Sam Allardyce – a guidare la nazionale, e mai le aspettative erano state tanto basse, che è un po’ l’umore che si respira ovunque nel Regno oggi: non ce la possiamo fare. Poi tutto è cambiato, in un attimo, il mondo ha fatto un giro su se stesso ed è tornato dritto, almeno per qualche partita, almeno per gli inglesi, che ora ci credono e urlano e saltano, “it’s coming home” è la colonna sonora della speranza. E pazienza se poi finisce in fretta: nell’urlo di Southgate all’ultimo rigore che ha mandato a casa la Colombia c’era tutta la nazione, con il suo sogno stropicciato e i demoni che per una volta, per una notte, sono stati cacciati per davvero.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi