Il Regno Unito ha un problema con la fiducia, proprio ora che l'unica alternativa è fidarsi
Boris Johnson scrive che l'Inghilterra ha un solo problema: non crede in se stessa. Ma dove si trova la forza di fidarsi dopo anni di tradimenti e ripicche e sgambetti?
E’ passato Donald Trump con i suoi consigli e le sue giravolte: prima critica e poi dice che è stato tutto un malinteso, il solito format che il presidente americano propina ai suoi alleati in giro per il mondo. Ma per il Regno Unito dai nervi a fior di pelle ogni parola è dolorosa: li sfiori, e gli inglesi urlano. Boris Johnson, appena smessi i panni da ministro degli Esteri, ha ripreso a scrivere per il Telegraph e sostiene che il Regno ha un unico problema: non crede in se stesso. Se solo la consapevolezza britannica fosse un po’ più solida, dice Johnson, non avremmo paura di Trump che dice una cosa e se la rimangia il minuto dopo né della Francia che ruba headquarters milionari e li sistema a Parigi né dell’Europa con il sopracciglio perennemente alzato. Manca la fiducia, dice l’ex ministro che non si fida di nessuno, ricambiato: ma dove si trova la forza di fidarsi dopo anni di tradimenti e ripicche e sgambetti?
Gli eserciti della Brexit sono tutti schierati, pronti a morire come dal primo giorno, chissà per chi. Theresa May sa di correre i rischi maggiori, nella grande confusione l’unica cosa certa è che la premier è un bersaglio comunque si posizioni, pure se centrarla non è affatto semplice: provate a parlare ai suoi detrattori e scoprirete che umore hanno. Ai Comuni si votano alcuni emendamenti alla legge sulla Brexit, ma a parte i dettagli tecnici la questione è: fino a che punto si spingerà la May per difendere il piano stabilito ai Chequers una decina di giorni fa? E’ disposta a sacrificare anche la sua leadership per portare avanti la bozza di Brexit del compromesso assoluto, un po’ dentro e un po’ fuori dall’Ue (non si sa ancora cosa ne pensino gli europei)? Ha fiducia in se stessa e nella propria proposta? Gli studiosi del “maysmo” si dividono: c’è chi dice che non è nella natura della premier battersi per il gusto di battersi, non è una guerriera, è una calcolatrice, quindi difenderà il suo accordo fino a che penserà di avere i numeri per farlo, poi cederà. Anche perché l’unico atto di coraggio che ha avuto nel suo accidentato mandato è stato quello del voto anticipato nel giugno dello scorso anno e, a poter riscrivere il passato, probabilmente non lo rifarebbe più. Molti altri invece sostengono che questo è il momento della verità, non si può scappare, non si può scartare di lato, manca troppo poco tempo prima del round negoziale dell’autunno in cui si definirà l’accordo o il non accordo: la May non può che combattere.
Le battaglie inevitabili sono le più facili da perdere, ma il premier questa volta ha almeno dalla sua parte un documento scritto, non chiarissimo, ma è l’unico che c’è. Agli altri restano il tifo e le promesse, e questo non è più il tempo del dibattito, bisogna scegliere, bisogna proiettarsi al 29 marzo del 2019, quando il divorzio sarà firmato, ci si guarderà negli occhi: e adesso? Ci fidiamo di noi? I falchi della Brexit non vogliono sentir parlare di compromessi, sono disposti a uscire bruscamente dall’Ue con il “no deal” perché, come disse la stessa May tempo fa, “nessun accordo è meglio di un brutto accordo”. Il terrore del divorzio brusco logora i brexiters più moderati, che sono al lavoro per sostenere la May ma non riescono a garantirle un sostegno decisivo. Una conservatrice anti Brexit già ministro, Justine Greening, ieri ha inferto un altro colpo brutto alla premier: ci vuole un secondo referendum, ha scritto la Greening sul Times, non può essere il governo a decidere in modo autonomo che genere di Brexit è meglio per gli inglesi. Così nella crisi di sfiducia ci si trova a dover far fare lo sforzo più grande, fidarsi della May o fidarsi della voce del popolo, che è come quando le mogli decidono che non guarderanno mai più il telefono del marito e ogni messaggio notturno sarà sicuramente un messaggio di lavoro.