Su Maduro la non ingerenza e il sovranismo vanno a braccetto
La cordata che difende il dittatore venezuelano guidata dalla Russia s’appella al principio di non ingerenza, l’alibi più fragile del mondo
Milano. “Imporre decisioni o l’aspirazione di legittimare il tentativo di usurpare il potere, a nostro avviso, è un’ingerenza diretta e indiretta negli affari interni del Venezuela”, ha dichiarato ieri il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, evitando di usare il termine golpe che in questi giorni si è sentito parecchio tra i sostenitori di Nicolás Maduro ma dando comunque una copertura di diritto alla propria scelta strategica: noi non interveniamo negli affari nazionali degli altri paesi, ognuno è sovrano a casa sua, no alle ingerenze straniere.
Il principio di non ingerenza va di pari passo con la sovranità – ognuno è padrone a casa propria – e rivela le stesse contraddizioni che riguardano i fanatici del sovranismo. Dietro alla non ingerenza si può nascondere tutto, le brutture umanitarie, le regole internazionali violate, i sequestri, le violenze, i fallimenti sistemici: a casa mia faccio quel che reputo giusto, chi siete voi per dirmi che cosa devo fare? E’ un po’ come la cameretta degli adolescenti, la porta chiusa a chiave e tutto il mondo fuori, almeno finché non c’è bisogno di qualcosa, una passata d’aspirapolvere, una ricarica, un aiuto, e la porta magicamente si apre. Le convivenze internazionali sono spesso come quelle di una casa, di una famiglia, una serie di norme condivise e una certa autonomia nei propri spazi. Ecco, l’autonomia: l’interesse nazionale si nutre di non ingerenza, e qualsiasi commento – suggerimento, richiesta, pretesa: le regole di convivenza internazionale funzionano così, sono state create per l’appunto perché nessuno si sentisse troppo padrone a casa propria, era pur sempre la fine della Seconda guerra mondiale – diventa un’intrusione esterna, un tentativo di delegittimazione straniera, a volte una punizione (questo è un grande classico ungherese, per dire, che da un po’ di tempo a questa parte prende ogni tentativo di verifica da parte dell’Unione europea come una “punizione” di Bruxelles per via della mancata solidarietà sui migranti). Ci sono soltanto ingerenze provocatorie, micce piazzate da alcuni per molteplici ragioni – “il petrolio!” non lo batte nessuno mai – e l’unico modo è denunciare l’interferenza, e restare aggrappati a un brutale status quo. Qui, dice la Russia, e con essa la Turchia, l’Iran, la Cina (che in questo è coerente: non comprende l’ingerenza politica, maneggia meglio di tutti però l’ingerenza economica) e naturalmente l’Italia, siamo di fronte a un regime change eterodiretto dall’estero, dagli yankee americani per lo più, e il compito degli altri paesi è quello di evitarlo, contenerlo, dirottarlo su altre questioni. Avete visto come è finita con la Libia?, ripetono solerti i russofili e i sovranisti, o semplicemente i pappagalli del refrain della non ingerenza.
La porta della cameretta prima o poi però si apre, e così si scopre che i cantori della non ingerenza in realtà vogliono interferire soltanto dove dicono loro. Il principio viene violato quando si persegue un proprio interesse, ed è così che magicamente l’ingerenza diventa legittima, diventa un invito ai gilet gialli a costruire insieme un’offensiva europea contro il presidente francese, o un’alleanza studiata esclusivamente per sostenere una causa, a volte si trasforma in qualcosa di ancor meno palpabile ma decisivo: la cosiddetta “interferenza” russa nelle elezioni americane del 2016 è qualcosa di diverso da un’ingerenza? Chissà come sarebbe il Donbass ucraino se davvero il principio di non ingerenza avesse un’unica, coerente applicazione. Chissà se la Crimea sarebbe oggi una (impoveritissima) provincia russa se non ci fosse stata l’ingerenza di Mosca. L’ipocrisia del sovranismo è tutta qui, una porta chiusa che si apre per opportunismo. Di ingerenza umanitaria non parla ovviamente nessuno, tutto ciò che ha a che fare con il rispetto dei diritti umani è rimasto impigliato in un passato remoto, superato: in questa stagione in cui i rapporti diplomatici sono soltanto utilitaristici, nessuno pensa che possa esistere l’istinto a salvare il Venezuela non tanto per amore nei confronti di Juan Guaidó, quanto per dare una chance di riscatto ai venezuelani ridotti allo stremo, una porta che si apre per darsi una mano, che follia idealista di adolescenti ormai grandi.