Un altro divorzio inglese
Il movimento dei ribelli laburisti, contro la Brexit e contro l’antisemitismo
Alla fine il divorzio c’è stato, dopo tanti annunci e tanti ripensamenti: insieme non possiamo davvero più stare. Nel Regno Unito delle separazioni irrequiete, ieri s’è consumato l’addio tra alcuni esponenti laburisti e il Labour di Jeremy Corbyn: la frattura era nell’aria ed era inevitabile – troppe differenze inconciliabili – ma alla presentazione del nuovo partito non c’era aria di festa. Anche perché i sette fuoriusciti – Chuka Umunna, Luciana Berger, Ann Coffey, Angela Smith, Chris Leslie, Mike Gapes e Gavin Shuker – divorziano a causa di un tradimento: sulla Brexit, naturalmente, ma anche, e in alcuni casi soprattutto, per le contaminazioni antisemite dentro al Labour di Corbyn.
Umunna, ex ministro ombra e per qualche giorno candidato alla leadership del Labour, il volto più conosciuto di questo manipolo di ribelli, ha spiegato il perché di un nuovo movimento: “I partiti tradizionali non possono guidare il cambiamento perché sono diventati il problema”, perseguono più i loro interessi che l’interesse nazionale, “è arrivato il momento di superare la vecchia politica di questo paese” e di creare un’alternativa. Umunna chiede ad altri parlamentari di unirsi al movimento, e non si rivolge soltanto ai laburisti, ma anche ai conservatori stanchi della strategia a perdifiato della premier, Theresa May: Umunna sogna di fare un’operazione macroniana a Londra, attirando i moderati che vogliono fermare l’uscita del Regno dall’Unione europea e recuperare i valori di convivenza civile che, tra una fantasia e l’altra, tra uno strappo e l’altro, sono andati perduti.
Luciana Berger, laburista di Liverpool Wavertree, con il suo pancione e gli occhi brillanti, è la testimonial di questi valori e ha raccontato che la decisione è stata molto sofferta, ma necessaria: quando provi “imbarazzo” per i tuoi compagni di partito, quando sei vittima di una cultura “di bullismo, di fanatismo e di intimidazione”, non puoi che denunciare i tuoi carnefici, e andartene. La storia della Berger rappresenta la sintesi dell’involuzione del Labour corbyniano: lei è stata molto dura contro il leader del partito, ha sottolineato più volte la pericolosa ambiguità di Corbyn sulla Brexit, ed essendo ebrea è stata accusata di essere al servizio di non meglio identificati “interessi superiori”, al punto che la sede del Labour della sua circoscrizione aveva introdotto una mozione di sfiducia per cacciarla. A quel punto era intervenuto persino il fondatore di Momentum, il gruppo di attivisti che ha portato Corbyn al potere e lo mantiene lì, Jon Lansman, ebreo anche lui: basta con queste scemenze, ha detto. La mozione è stata ritirata, ma è tornata in superficie la mai risolta – perché risolvibile non è, per ragioni ormai fin troppo evidenti – questione dell’antisemitismo dentro al Labour.
In ogni caso, i nuovi indipendenti non hanno trovato attorno a sé grande calore. I moderati che non sono coinvolti nella fuga non sanno se la mossa aiuterà per davvero la loro causa: gli anti Brexit pensano soltanto alla marcia che si terrà il 23 marzo, la prova di forza della piazza del People’s Vote – l’uscita è troppo vicina per costruire un’alternativa così, su due piedi. Il cancelliere ombra John McDonnell ha ricordato che, quando ci fu lo stesso esperimento negli anni Ottanta con i fuoriusciti dell’Sdp, a guadagnarci furono soltanto i Tory. Il vice di Corbyn, Tom Watson, ha pubblicato un video riparatore: dobbiamo cambiare, se non vogliamo che anche altri ci abbandonino. In realtà pure i radicali di Momentum ci tenevano alla compattezza almeno formale del Labour: a San Valentino avevano dedicato un video a Umunna, sulle note di “Please don’t go”. Volevano trattenerlo, ma sapevano che era tardi – è tardi per ogni cosa: restare, andare, non c’è tempo più per nulla – e concludevano il messaggio con il cinismo di chi, nei divorzi, non ha problemi di cuore: “Se te ne vai, comunque ci teniamo la casa xxx”.