Comeback kid
La gioia pazzesca di vedere Tiger Woods che torna a vincere con addosso la sua talentuosa imperfezione
Ventidue anni fa, ci fu l’abbraccio che cambiò la storia del golf, il padre che stringe il figlio, la fatica ripagata, il sogno che si avvera su quel campo impossibile che è l’Augusta National Golf Club, in Georgia, e nell’immaginario di uno sport che trovò un testimonial unico e strepitoso per il decennio a venire. Nel 1997 Tiger Woods aveva vinto il suo primo Masters, il torneo del grande slam che si gioca ogni anno ad Augusta, e si era infilato per la prima volta la mitica giacca verde – il simbolo di questa gara – dopo aver stretto fortissimo Earl, suo padre, suo allenatore, suo preparatore atletico, suo tutto. Per undici anni da allora Tiger incarnò una rivoluzione: non era soltanto un campione come non se n’erano mai visti prima, non era soltanto il primo nero a imporsi in un mondo di bianchi, era anche un modo nuovo di interpretare il golf, più atletico, più freddo, più sano (scomparvero le birre e le sigarette, arrivarono il Gatorade e gli addominali scolpiti). Tiger era perfetto e algido, lo swing più bello di sempre e la concentrazione silenziosa, quasi robotica. Pareva gli mancasse il cuore, ma non importava a nessuno, perché il suo talento era talmente fuori dalla norma che non aveva bisogno di fronzoli per farci commuovere e sognare tutti quanti, golfisti e non, con quella sua irraggiungibile perfezione.
Poi nel 2009 la vita piombò sul campione, lo stropicciò al punto da renderlo irriconoscibile. L’atleta perfetto e glaciale aveva una, due, dieci vite, viveva di notte, si ubriacava tradiva sua moglie, con una, due, dieci amanti. L’America puritana non gli perdonò nulla, gli sponsor iniziarono ad abbandonarlo, i tabloid iniziarono a spifferare quel che evidentemente tutti sapevano ma non avevano detto per non rovinare il loro patrimonio nazionale: Tiger divenne tossico e inavvicinabile, cercò di curare la testa ma nel frattempo andò in pezzi il suo corpo, le ginocchia, la schiena, non teneva più nulla. Per dieci anni Tiger ha cercato di riprende il filo della sua perfezione, lo ha cercato senza trovarlo, ha detto che ce l’avrebbe fatta e si è mezzo arreso, poi ha detto un’altra volta che ce l’avrebbe fatta e ha scoperto un mondo lì pronto a crederci perché Tiger mancava, mancava tantissimo, e nessuno aveva gioito nel vedere l’eroe che cadeva. Ma il suo spirito robotico, tutto sempre sotto controllo, non sapeva gestire le imperfezioni, le crepe, l’immagine sgualcita.
Domenica, alla 12 di Augusta, una delle tre buche dell’“amen corner” dove molti giocatori hanno visto svanire illusioni di successo, Tiger ha cambiato lo sguardo. Gli è tornato quello di un tempo, quello che lo ha reso famoso, quello da killer. L’hanno notato in molti, forse anche Francesco Molinari, il nostro campione dei sogni, che era in testa all’Augusta e che nelle ultime nove buche dell’ultimo giro ha perso tutto (è arrivato quinto, e dispiace molto, sta giocando un golf splendido). Tiger ha iniziato la sua rimonta, implacabile e glaciale: di nuovo lui. Ha vinto il suo quinto Masters, il quindicesimo major, undici anni dopo l’ultimo. Ha alzato le braccia al cielo, guardando il pubblico, gli occhi di un uomo di nuovo libero, è uscito dal campo e ha abbracciato suo figlio. Charlie ha dieci anni, che suo padre sia fortissimo lo sa dalle foto e dalle storie, lui conosce il Tiger imperfetto, stropicciato, dolorante, sgualcito. Per la prima volta, nell’abbraccio simile a quello di ventidue anni fa ma ribaltato, abbiamo visto gli occhi lucidi di Tiger, il cuore tra le braccia di suo figlio, il sorriso spalancato e commosso di un comeback kid.