Il volto nuovo del regime sudanese è Hemeti
Un fedelissimo di Bashir che ripete “lo faccio per voi” mentre i militari sparano sulla piazza
Lo chiamano Hemeti e il suo obiettivo è rubare la rivoluzione al popolo sudanese. I sit-in pacifici vanno avanti da mesi a Karthoum, il dittatore Omar al Bashir è stato deposto, il consiglio militare che ha preso la guida del paese ha tentato un dialogo con la piazza, ha fornito garanzie sulla sicurezza dei manifestanti e ha concesso deroghe al coprifuoco. Ma poi c’è Hemeti, che è la sintesi di quel che sta accadendo in Sudan, mentre ci innamoriamo delle ragazze che ballano sui tetti delle automobili e intonano i canti della tradizione e ci dimentichiamo che se non si spezza il nucleo militare del potere non ci sarà un futuro nuovo per il Sudan. Hemeti è un altro potere di regime, un fedelissimo di Bashir che in un attimo, capito il vento, ha iniziato a guidare le epurazioni dentro al gruppo militare al comando.
Hemeti è un soprannome, lui si chiama Mohamed Hamdan Dagolo, è il numero due della giunta militare, ha rilasciato interviste in cui diceva di aver fretta di dare il potere ai civili, “siamo stanchi, vogliamo trasferire il potere oggi piuttosto che domani”, ma è lui che controlla le forze armate più autonome e brutali del paese, le Forze di supporto rapide, il restyling dei janjaweed, gli uomini armati a cavallo che hanno razziato il Darfur e il Sudan per anni, uccidendo uomini e bambini, violentando le donne, tutto quel che era d’ostacolo al rafforzamento del regime finiva cadavere. Hemeti, che ha poco più di quarant’anni, è uno degli interlocutori più importanti di questo Sudan in trasformazione: il capo della giunta, il generale Buthani, è l’uomo di facciata, Hemeti è il più cercato, nonché il perno su cui si appoggiano sauditi ed emiratini che certo non vogliono che in Sudan si instauri una democrazia: stabilità per loro, e per Hemeti, è soltanto forza e autoritarismo. Hemeti sta guadagnando sempre più visibilità: ama parlare in pubblico e farsi intervistare, mostra quasi sempre modi concilianti e ogni sua azione è, nelle sue parole, un “aiuto al popolo sudanese”. Ora che le forze armate sudanesi hanno iniziato a sparare sulla folla – nove morti e molti feriti, secondo l’associazione dei sindacati e dei professionisti che guida le manifestazioni – Hemeti ha fornito la versione ufficiale della giunta: non ce l’avevamo con le persone, ma con quello spazio fuori controllo soprannominato “Colombia” in cui ci sono traffici illeciti giusto di fianco ai sit-in. Abbiamo dovuto sgomberare per forza, lo abbiamo fatto per voi. I social si sono riempiti di filmati in cui si sentono molti spari e ci sono corpi a terra, i manifestanti sono disarmati e scappano. La giunta smentisce di aver voluto disperdere le proteste, anche se il dialogo con i civili è interrotto dalla settimana scorsa: i militari vogliono che la transizione duri due anni e sia gestita dall’esercito, pure se avevano lasciato intendere che potesse esserci un governo congiunto con i civili.
Lo facciamo per voi: con questo paternalismo dittatoriale, Hemeti sta costruendo una nuova leadership, parla nell’ambasciata americana a Khartoum di “elezioni libere” e “vera democrazia”, mentre le Forze di sostegno rapido che ha costruito e che ancora comanda si spargono per la capitale: nella memoria dei sudanesi loro rappresentano la violenza in arrivo. “Non possiamo piacere a tutti – ha detto di recente Hemeti – ma cercheremo di essere attivi nel risolvere i problemi, i problemi reali. Perché ogni pastore è responsabile della propria pecora”, io so cosa è bene per voi, ogni cosa che faccio è per proteggervi.
I sudanesi intanto ammonticchiano mattoni in mezzo alle strade, le loro piccole barricate con i copertoni che bruciano per allontanare i militari: non sanno più di chi fidarsi, sanno che tutto si gioca dentro al palazzo e che loro non potranno che subirne il verdetto. Scrivono molti cartelloni in inglese, perché l’attenzione internazionale è decisiva, ma pure fidarsi dell’occidente è diventata una scommessa audace. E intanto ogni mattoncino, quello sì, è istinto di protezione, contro i ladri di rivoluzioni.