I nostri tic sul coronavirus trasportati in una terra dove non c'è scelta
Un reportage del New York Times dal nord-ovest della Siria, dove mancano gli ospedali, i test, e vita è assembramento
I ritardatari corrono dietro al tempo sperando di riacciuffarlo, anche se i modelli matematici applicati al coronavirus – il nuovo crush è John Burn-Murdoch del Financial Times – sono impietosi: chi ha ignorato il pericolo rischia di avere ripercussioni peggiori di quelle presenti nei paesi che hanno cercato di reagire con vigore alla crisi fin dalle prime avvisaglie. Poi ci sono quelli che non hanno avuto scelta, non ce l’hanno nemmeno adesso, e non l’avranno mai: il New York Times ha pubblicato un reportage da Maarat Misrin, una piccola città nel nord-ovest della Siria, nella regione di Idlib, che dovrebbe entrare nel briefing quotidiano di tutti quei leader occidentali che si sono presi il lusso di temporeggiare e di fare esperimenti sociali, che hanno vissuto nella presunzione che il “virus cinese” prendesse soltanto qualcuno, gli italiani per esempio, e non altri, e non tutti.
Laddove non c’è scelta, non c’è nemmeno la possibilità di lavarsi spesso le mani. “Volete che ci laviamo le mani?”, chiede Fadi Meshar, direttore di Idlib della Maram Foundation for Relief and Development: “Alcuni non riescono a lavare i loro figli per una settimana: vivono all’aperto”.
Laddove non c’è scelta, non esiste la distanza, non c’è la possibilità di stare a due metri di distanza l’uno dall’altro, ma nemmeno a un metro: la vita qui è assembramento. Laddove non c’è scelta, fare i test è un’ambizione e una speranza. Molti leader occidentali pensano che fare molti tamponi sia controproducente: crescono i numeri, cresce il panico, non ne viene nulla di buono. I virologi si sgolano, invece: più test si fanno, più si ha contezza del contagio, prima se ne viene fuori. Anche l’Organizzazione mondiale per la Sanità ripete: testare, testare, testare. Ma quella stessa Organizzazione ha spedito un mese fa i kit per il test al regime di Damasco, a Bashar el Assad e al suo governo, mentre a Idlib, terra ribelle e contesa e bombardata dal regime assieme ai suoi alleati russi, l’Oms sta mandando i tamponi in questi giorni. Il nord della Siria “non è uno stato”, la priorità dei test vanno alle entità statali, anche a quelle che bombardano pezzi del proprio stato. “E’ comprensibile”, dice un medico al New York Times, e questa è forse la considerazione più straziante di tutte.
Le fonti citate dal quotidiano dicono: il virus c’è sicuramente, ma non abbiamo modo di mostrarlo né di quantificarlo. Laddove non c’è scelta, si muore “per” il coronavirus o “con” il coronavirus è un altro lusso ideologico-semantico: si muore e basta. Ci sono tre milioni di persone in questa provincia che combatte contro il regime dal 2012, e i continui bombardamenti hanno costretto molti a muoversi – potrebbero arrivare fino in Europa. Secondo le Nazioni Unite, un terzo di queste persone vive in campi o tende, il resto vive per strada, o in palazzi diroccati con altre famiglie, dove si trova un tetto, quando lo si trova. E gli ospedali? Secondo le Nazioni Unite, da dicembre a oggi i bombardamenti siriano-russi hanno distrutto o reso in parte inagibili 84 strutture ospedaliere – molti medici e infermieri sono morti. All’Idlib Central Hospital c’è un laboratorio che sarebbe pronto ad analizzare i tamponi, è stato creato nelle ultime settimane per far fronte all’emergenza del virus: ma non ci sono i tamponi (la prima fornitura di guanti e mascherine è arrivata da qualche giorno). E l’isolamento? I medici guardano sconsolati i giornalisti del New York Times: dove pensate che si possa fare una quarantena in un posto come questo? Una volta che sarà possibile stabilire chi è positivo, comunque sarà difficile garantire l’isolamento necessario. Così la stima è questa: possono morire da 100 a 200 mila persone, 10 mila avranno bisogno di respiratori, per ora ce ne sono 153.
Chissà che effetto fanno i nostri ritardi, le nostre lamentele da convivenze forzate, il diritto alla passeggiatina e finanche questo linguaggio da guerra, laddove non c’è scelta.