Cosmopolitics

Trump s'è fatto una palude adatta a sé

Ma quale politica antisistema, contro le élite e contro i privilegi. La natura delle leadership "del popolo"

Paola Peduzzi

In fondo l’impatto di una presidenza – come di un capo, come di un padre – è tutto qui, nel mostrare una via, un metodo, un’aspirazione, un progetto. Nel caso specifico, lo chiamavamo sogno americano

Donald Trump ricomincia la sua campagna elettorale, il suo medico dice che non è più infetto e quindi è libero di gironzolare per il paese: non ha un test che dimostri il fatto che è negativo, o se il test esiste nessuno lo ha mostrato né vi ha fatto alcun riferimento. Il presidente è il presidente, può fare un po’ come gli pare perché, come hanno spesso detto i suoi collaboratori in questi anni (alcune volte rovesciando gli occhi), è lui che è stato eletto, è lui che comanda e che decide, nessun altro. Così il presidente del popolo eletto dagli americani che volevano rovesciare il sistema e rovesciare le élite, il presidente che ascolta la rabbia e doma la paura e che mostra quel che nessuno prima di lui ha mostrato sui meccanismi del potere – la trasparenza dell’outsider – gode del privilegio di non dover dimostrare che è negativo al coronavirus: la trafila infinita dei tamponi, dei falsi positivi, dei doppi tamponi “in uscita” come si dice adesso è affare del popolo, non del presidente del popolo. Che è uno che non ha mai nemmeno mostrato la sua dichiarazione dei redditi, figurarsi se sente l’urgenza di farlo per il test di un virus che, secondo lui, sta in mezzo tra la bufala orchestrata dall’opposizione democratica e la “benedizione di dio”.

 

Trump riparte, mancano ventuno giorni al voto e c’è molto da fare: i sondaggi sono poco rassicuranti per il presidente – non lo ammetteremo mai perché siamo ancora affetti dalla sindrome del 2016, ma qualcuno comincia a chiedere: non è che lo sfidante Joe Biden vince a valanga? Ma zitti: vietato anche solo pensarlo – e alcuni consiglieri gli dicono che in parecchi stati moltissime persone hanno già votato, quindi tutta questa fretta di ributtarsi nei comizi non è del tutto giustificata. Ma si sa: i sondaggi sbagliano, gli stati in bilico esistono, le partite scontate sono quelle più belle da ribaltare. Così Trump va, riparte, sogna la tuta di Superman,  ma questo suo privilegio di paziente guarito senza prove è soltanto l’ultima dimostrazione della sua promessa non mantenuta: non ha prosciugato alcuna palude. Domenica, in un altro di quegli articoli da fine di mondo che abbatterebbero chiunque ma non Trump, il New York Times lo ha scritto chiaramente: Trump non ha messo fine alla cultura dei favoritismi, parte consistente della palude, “l’ha reinventata”. I resort e gli hotel di Trump sono il luogo in cui la palude è stata spostata, ci sono molti volti nuovi e antiche richieste, intrecci che a volte riemergono anche negli incontri alla Casa Bianca. Una delle fonti più precise di questa ricostruzione è l’ex avvocato di Trump, Michael Cohen, che in testimonianza al Congresso aveva detto che l’unico modo per colpire Trump era guardare i suoi affari.
In realtà nemmeno così si colpisce, il presidente. Questa inchiesta – piena di nomi e di numeri che fanno riferimento a soldi – come molte altre, come anche il “muro delle bugie” tutto colorato che conta le menzogne del presidente, lascia indifferenti i suoi sostenitori (o almeno così sembra). Ma queste inchieste servono a spiegare la natura di certe leadership cosiddette del popolo: il sistema non cambia, non si ribalta, si adatta a nuove priorità, nuovi amici, nuovi privilegi. Nulla di male, come nulla di male c’è nel fatto che il presidente americano per curarsi dal Covid abbia speso – così dicono alcune stime – 100 mila dollari di soldi dei contribuenti. Il patto si rompe  nel momento in cui dichiari di voler guidare un paese in nome dello stravolgimento del sistema precostituito, quando dici che darai voce al popolo contro i privilegiati e poi non fai né la prima né la seconda cosa. In fondo l’impatto di una presidenza – come di un capo, come di un padre – è tutto qui, nel mostrare una via, un metodo, un’aspirazione, un progetto. Nel caso specifico, lo chiamavamo sogno americano.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi