Cosmopolitics
Quel che William Burns scrive di sé
Diplomatico di lunga carriera, è stato nominato da Biden come direttore della Cia. Nel suo memoir del 2019 ci sono molti elementi per comprendere come vede il mondo
L'autobiografia di Burns, oltre a essere una storia geopolitica dell’America dagli anni Ottanta a oggi, va a fondo di una questione importante per chi è chiamato ad amministrare paesi e relazioni internazionali: lo scarto che esiste tra la cosa giusta da fare e la volontà e capacità di farla
E’ difficile “non considerare l’agonia della Siria come un fallimento politico dell’America”, scrive William Burns nella sua autobiografia pubblicata nel 2019, “The Back Channel: A Memoir of American Diplomacy and the Case for Its Renewal”. Burns è stato nominato da Joe Biden come il prossimo direttore della Cia, ma quando si è consumata l’agonia siriana – anzi, il suo inizio perché l’agonia non è finita – Burns era il numero due del dipartimento di stato dell’Amministrazione Obama. “Ancora una volta, siamo finiti nei guai con la strategia di breve periodo – “short game”, lo chiama Burns – Non abbiamo saputo allineare i mezzi e i fini, abbiamo promesso troppo da una parte, dichiarando ‘Assad deve andarsene’ e fissando ‘linee rosse’, e dall’altra abbiamo applicato strumenti tattici in modo guardingo e incrementale”. Si dirà: ma c’eri tu lì, eri tu che potevi prendere e far prendere decisioni diverse, perché non lo hai fatto? Il memoir di Burns, oltre a essere una storia geopolitica dell’America dagli anni Ottanta a oggi, va a fondo proprio di questa questione, che è forse la domanda più grande che chi è chiamato ad amministrare paesi e relazioni internazionali si pone: lo scarto che esiste, perché esiste, tra la cosa giusta da fare e la capacità di farla.
Burns, che ha iniziato a lavorare nella diplomazia nel 1982, ha un’esperienza enorme e racconta una quantità di dettagli e aneddoti da perderci le nottate, non è indulgente con se stesso né con gli errori che sono stati commessi dai presidenti con cui ha lavorato, non è di quegli uomini che dicono: eh, ma ti ho chiesto scusa. Le scuse non bastano e anche quando scrive della guerra in Iraq Burns si sporca le mani con la propria impotenza. Nel 2002, scrisse un documento assieme ad altri due diplomatici che inviò all’allora segretario di stato Colin Powell, con cui Burns aveva lavorato e che conosceva bene: si intitolava “La tempesta perfetta” e metteva l’accento sulle linee settarie che frammentavano l’Iraq, sui pericoli di destabilizzazione interna e sulla possibilità che a uscirne avvantaggiato fosse l’Iran. Ma, scrive Burns, “quello che non abbiamo fatto è stato creare un’argomentazione forte contro una guerra” che consideravano sbagliata: “Abbiamo tirato colpi a vuoto”, e ancora nel suo memoir il neonominato direttore della Cia trova le proprie spiegazioni a quell’impotenza “confuse e insoddisfacenti”. Lo scarto tra quel che è giusto fare e poi si riesce a fare esiste, a volte si assottiglia e diventa un successo diplomatico – Burns è tra gli architetti assieme a Jake Sullivan, designato da Biden come consigliere per la Sicurezza nazionale, dell’avvicinamento all’Iran che ha portato all’accordo sul nucleare – ma poi si allarga in fretta, sotto ai tuoi occhi e lo vedi e lo senti e non riesci a contenerlo. Se c’è una sovrapposizione completa tra le relazioni internazionali e quelle personali è proprio qui, in quello che vorremmo fare perché è giusto e in quello che riusciamo a fare perché non siamo soltanto razionalità, numeri, cause ed effetti schematici. Burns ritorna su questo punto quando parla della Russia, e pare di vederlo mentre si ripresenta a Mosca dopo gli anni da ambasciatore con Eltsin presidente, nel 2005 e Vladimir Putin lo prende da parte all’incontro con i nuovi diplomatici stranieri e gli dice: “Voi americani dovete ascoltare di più. Non potete più avere ogni cosa come piace a voi. Possiamo avere relazioni efficaci, ma non soltanto ai vostri termini”.
Burns porta nell’Amministrazione Biden la sua competenza e le sue conoscenze, la consapevolezza dei propri limiti anche, merce rara in un mondo che si crede sempre più onnipotente, ma anche la certezza che “ci sono molte ragioni per essere ottimisti sul potenziale della diplomazia americana”, il cui primo compito è, come ha scritto David Ignatius che ieri è stato il primo a far trapelare la notizia della nomina di Burns, ricostruire “quel ponte che chiamiamo ordine liberale del mondo”. C’è un barlume di eccezionalismo americano nella visione di Burns, senza bullismi, senza complottismi da deep state, ma con l’idea che non serve scusarsi, serve dare l’esempio.