Cosmopolitics
La frustrazione di Kamala Harris
Quanti pettegolezzi sulla vicepresidente americana, che non riesce a dare forma al proprio ruolo. Gli aneddoti del passato e le troppe indiscrezioni
Che cosa sta succedendo a Kamala Harris? A Washington non si fa che parlare della vicepresidente, della sua popolarità in ribasso (peggio di Cheney!), delle sue attività poco visibili o comunque poco incisive, dei suoi incontri sempre più rarefatti con il suo capo, il presidente Joe Biden. Poiché la Harris è, oltre che il numero due di questa Amministrazione americana, un simbolo – la prima donna e la prima afroamericana a diventare vicepresidente – i molti attacchi che riceve, in particolare dai media conservatori, vengono letti attraverso una deformazione molto comune: è perché è donna. Così, tra pettegolezzi e pochi successi, s’appanna la stella della Harris, che era considerata non soltanto la più luccicante e promettente di questo mandato ma anche in grado di proiettare una luce vincente sul 2024.
La Cnn ha pubblicato un lungo resoconto la cui sintesi è: c’è una grande frustrazione. Sia da parte dell’entourage della Harris, che sostiene che la Casa Bianca non voglia sfruttare il potenziale politico della sua vice, sia da parte dell’entourage di Biden che invece è molto insoddisfatto per l’assenza di iniziative concrete da parte della Harris. In mezzo ci sono voci del Partito democratico e del mondo del business che ruota attorno ai liberal che sono spesso impietose nei confronti della Harris, perché, dicono, dovrebbe essere là fuori a battersi per i progetti della Casa Bianca, soprattutto quelli economici e sociali, e invece sta nel suo ufficio a lamentarsi di non essere considerata come si meriterebbe. Poi ci sono le voci interne al mondo Harris, le più dolorose perché appunto vicine: per noi sono anonime, ma per lei forse sono riconoscibilissime. E dicono che la famiglia della Harris è troppo presente, che il suo circolo più ristretto di collaboratori non la sa proteggere dalle sue stesse debolezze e riemergono aneddoti del passato, che risalgono a quando la Harris lavorava a San Francisco, che restituiscono un’immagine di permanente disfunzionalità nella sua leadership.
In mezzo ai pettegolezzi però non si trova né una spiegazione alla frustrazione né all’incapacità della Harris di crearsi una propria identità come vicepresidente. Si sa che le sono stati assegnati dei dossier molto difficili, e che in particolare quello sull’immigrazione, con i rapporti con il Sud America, lei non lo volesse, anche perché non c’è una linea del tutto chiara da parte dell’Amministrazione sul tema (anche per questo le visite a sud della Harris più che sciogliere ostilità e paura ne hanno create di nuove: ogni volta il suo staff deve precisare, sottolineare, spiegare le intenzioni). Ma anche l’arrivo in Francia della settimana scorsa, con l’obiettivo di restaurare le relazioni con Emmanuel Macron dopo l’affaire dei sottomarini, non è riuscito a tirare fuori la Harris dal cono d’ombra in cui si è messa. E sì che di occasioni in Francia ce ne sono state ed è un paese in campagna elettorale, sfoggiare abbracci e sorrisi con la vicepresidente d’America dovrebbe essere una priorità. Ma non questa volta, come se anche qui, da questa parte dell’Oceano, si sentisse più la frustrazione che il prestigio.