I dieci giorni che sconvolsero (e sconvolgono) l’Italia hanno un’unica fonte di colpevolezza di nome coronavirus, e un luogo simbolo incolpevole di nome Codogno. Codogno, il comune del Lodigiano che è stato ringraziato, con tutti gli altri comuni della zona rossa, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio al paese giovedì sera. E Codogno, il comune dove l’incredulità ha colpito per prima cosa i suoi abitanti, come ha raccontato sul Corriere della Sera Giancarlo Cerveri, direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Azienda sociosanitaria di Lodi: “Quando sul sito del Corriere ho letto che c’era un caso di coronavirus a Codogno ho pensato a un refuso. Codogno? Non è possibile!”. Poi l’incredulità ha passato la mano alla paura di chi stava intorno, vicino o poco più lontano, ma non così lontano da potersi sentire al sicuro: “Quando si è di fronte a qualcosa di pericoloso che non si conosce”, ha detto Cerveri, “la parte razionale del nostro cervello, situata nella zona frontale, va in tilt e prende il sopravvento la parte più arcaica, la zona limbica legata alle emozioni. Ricompare un ‘funzionamento’ sociale precedente a quello che caratterizza la civiltà come noi la conosciamo… Così ora per chi sta a Lodi il pericolo è chi viene da Codogno, per chi sta a Milano è chi viene dalla bassa Pianura padana e per chi sta a Roma è il lombardo”. E però c’è anche un’altra emozione bifronte, legata al luogo a cui il virus ha dato il suo brand, un brand di orrore sottile, che si palesa sotto forma di inquietudine. Le reazioni emotive prevalenti, dicono gli psichiatri, sono due. Lo spiega Cerveri: “Da una parte una specie di orgoglio misto a eccitazione per essere al centro dell’attenzione del mondo – pensate che cosa è stato vedere un giornalista della Bbc alle porte di Codogno – e dall’altra il senso di colpa. Ci si domanda: ma perché proprio io? Perché proprio noi? In situazioni come queste spesso le persone restano annichilite, ammutolite”. L’annichilimento è temporaneo, sperano gli osservatori che ancora non vogliono abbandonare una sorta di ottimismo difensivo razionale: Codogno, questo è l’auspicio, dopo aver reagito, come già sta facendo ora, e una volta finita la sospensione temporale della quarantena e dell’isolamento, rigirerà la macchia del contagio in positivo, e diventerà il luogo simbolo del primo eroismo antivirus, con i comuni fratelli di sventura Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d’Adda, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini e, nel Veneto, Vo’, e si scrollerà di dosso il brand che lo vuole ora “focolaio”, parola che rischia di proiettare un luogo verso la degenerazione del ricordo, il turismo nero del “qui è successo questo”. E però questo non è un caso di cronaca nera delittuosa, come quelli che hanno consegnato alla vista e alla memoria dei telespettatori luoghi talmente identificati con il delitto da funzionare come parte per il tutto: si dice “Cogne” e basta (al posto di “infanticidio di Cogne”), “Erba” e basta al posto di “strage di Erba”. Sono luoghi dove, non da oggi, frotte di curiosi morbosi si accalcano in cerca della villetta alle porte del Gran Paradiso dove avvenne il fatto orribile e della corte nel comasco dove quattro persone vennero accoltellate e colpite con una spranga. Poi ci sono i casi opposti: casi in cui un luogo, carico del suo passato, sostiene la memoria virtuosa del “dobbiamo ricordare perché non accada mai più”: lo scopo sotteso a tutte le visite ad Auschwitz e persino alla sala di controllo del reattore 4 di Chernobyl, dove da pochi mesi sono permesse visite di cinque minuti nel punto esatto da cui ha avuto origine il disastro nucleare del 1986.
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