Nella pianura padana, da Milano fino a Bologna, non diciamo di essere giù di corda, come altrove. Diciamo che ci è scesa la catena, come i ciclisti, e questo dovrebbe già spiegare molto del rapporto unico che intercorre fra la bicicletta, il nostro habitat sconfinatamente piatto e l’entusiasmo con cui, da un secolo e mezzo, gli diamo velocità e mutevolezza pedalando; anzi, “imprimendo una sterzata” all’ambiente, come declamava Marinetti col suo movimento futurista nato proprio nel corso Venezia dove da qualche giorno il sindaco Beppe Sala ha inaugurato la nuova pista ciclabile. Chirotteri metropolitani, come il quadro del tardo Depero, velocisti dilettanti ma entusiasti nel solco di quella tradizione narrativo-pittorica dove lo “studio dinamico” della bicicletta permette di affastellare paesaggi e monumenti l’uno sull’altro e di sdoppiare le figure umane. Ultimamente la catena ci è scesa parecchio, anzi striscia proprio per terra come al Denis di Lucio Dalla, e nel dilemma fra l’“andar fuori a vomitare” e l’“uscire fuori al freddo della sera” abbiamo scelto come era naturale la seconda opzione. Siamo usciti nonostante contagi da fase 1, ripescando dai cortili e dalle cantine certi arnesi arrugginiti e con la forcella storta e pedalando veloci verso il prato seminato a fiordalisi e papaveri di fronte al Bosco Verticale, forti della massima di Cesare Zavattini secondo la quale la bici “da noi” ha “qualcosa del cane”, e di cani da passeggio, anche in comodato d’uso, in questi mesi ha fatto grandissima esperienza anche chi non ne ha mai posseduto uno. Fra l’altro non fa neanche freddo, anzi si soffre già un caldo estivo, e se nella ridda di opinioni discordanti volessimo dar retta ai vecchi medici di famiglia, potrebbe confortarci il pensiero che al virus il caldo non piace perché gli scioglie il grasso protettivo in cui è incapsulato, secondo lo stesso principio, con obiettivi opposti si intende, di certe signore quando prendono il sole immobili per ore interminabili e poi si controllano il girovita.
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