Castelvetrano, via Alberto Mario, pochi giorni fa. “Aprite polizia”. Gli agenti entrano. Hanno gli occhi spalancati, malgrado potrebbero tenerli chiusi. Conoscono infatti la strada a memoria. E’ la casa di Lorenza Santangelo, la madre di Matteo Messina Denaro. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che viene perquisita. Non c’è abitazione, garage, cantina o anfratto che non sia stato perlustrato centimetro per centimetro. Gli investigatori hanno ormai acquisito una specializzazione in topografia. Disegnano un punto rosso su ogni luogo visitato. Ormai la mappa è una distesa rossa. Conoscono ogni mattonella del paese in provincia di Trapani. La perquisizione è, come sempre, approfondita. Che il latitante non sia in casa è scontato. Ma neppure c’è un pizzino, una letterina, un gingillo, un souvenir, qualunque cosa abbia la parvenza di una traccia. Il padrino non c’è. E’ un fantasma, nonostante da anni venga ricondotto alla sua volontà tutto ciò che avviene in provincia di Trapani, dalla disputa per un terreno a pascolo all’apertura di una bottega in paese, alla costruzione di un mega impianto fotovoltaico. Basta mettere una dietro l’altra le notizie, vere o presunte tali, e false che più false non si può per scrivere il romanzo criminale, tragico e grottesco, della latitanza. Tragico è che si siano perse le sue tracce dal 2 giugno 1993, giorno in cui andarono ad arrestarlo per le stragi di Roma e Firenze. Grottesco è tutto ciò che l’eterna fuga ha alimentato. Donna Lorenza, anziana com’è, vive con la figlia Rosalia. E’ vedova, il marito, don Ciccio Messina Denaro, è morto nel 1998. Una sera di novembre di quell’anno il fratello di donna Lorenza andò a denunciare di avere trovato il cadavere del cognato in campagna. Mani giunte, vestito scuro, mocassini nuovi. Fine della latitanza, durata otto anni. “Sulu mortu lu putistivu pigghiari”, urlò la moglie. A casa Messina Denaro c’è un ritratto del figlio Matteo, stile Andy Wharol, con tanto di corona in testa. A ogni perquisizione spunta fuori il filmato dell’effigie regalata alla famiglia, pare, da un tatuatore locale. Fa il giro delle prime pagine di televisioni e giornali e il mito dell’imprendibile capomafia si alimenta. A pensarci bene forse è proprio questo che vogliono i familiari, farsi notare, piazzando il quadro in salotto sopra il divano. Il volto del latitante, quello vero, si conosce grazie a un paio di vecchie foto. Poi circola un identikit a cui non credono neppure coloro che lo hanno realizzato. E dire che fu presentato in pompa magna, come la chiave investigativa. Per anni, d’altra parte, si è inseguito Bernardo Provenzano con l’identikit di un cattivo del cinema hollywoodiano e invece l’abietto padrino corleonese si presentava come un anziano sottomesso.
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