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Nel nome di Madoff

Michele Masneri

Epopea tragica del truffatore per antonomasia, il più odiato in America, morto in carcere

L’antonomasia è una figura retorica per pochissimi, ma Bernard Madoff (1938-2021), morto nel carcere americano dove stava rinchiuso da anni come autore della più grande truffa del Novecento, se l’era conquistata. E così, non appena una truffa, nello specifico truffa finanziaria, assurge a una qualche rilevanza, il suo ideatore diventa subito “il Madoff di”. Celebre a Roma quello dei Parioli, il finanziere che fregò molti bei nomi del cinema, dell’industria, dell’aristocrazia, col solito schema Ponzi (da Charles Ponzi, l’immigrato italiano che esportò le catene di sant’Antonio all’America intera). 

 

Il sistema classico: una piramide di rentier la cui base deve essere costantemente alimentata da sempre nuovi investitori che devono convincere altri investitori, per potere remunerare i piccoli faraoni del piano di sopra. Poi ognuno ci mette un tocco personale: se Ponzi prometteva il 200 per cento, Madoff si compiaceva di dare poco, un modesto 12 annuo; la sua caratteristica era però la costanza. Talmente affidabile da diventare “the Jewish T-Bill” ovvero “il buono del tesoro ebreo”. E in un certo senso l’ebreo americano Madoff era l’America, con quella sua faccia senza labbra, e i capelli candidi all’indietro, strepitosamente simile al George Washington sulle banconote da un dollaro (sul retro, la piramide e l’occhio di Dio che tutto vede).

 

Madoff era nato nel Queens da una famiglia povera e subito aveva scoperto la grande passione della sua vita, la Borsa. Così a soli 22 anni, abbandonata l’università, aveva messo su la sua società di investimento, che cavalcherà il Novecento borsistico e la sua saga, i fondi comuni, gli scambi elettronici, i titoli tecnologici, fino a portarlo, nel 1990, a diventare presidente del Nasdaq. Perché parallelamente allo schema illegale, aveva tutta un’attività limpida e cristallina (che però non andò mai così bene). E poi un gran lavorio di pubbliche relazioni e donazioni che serviva a reclutare nuovi clienti per alimentare la piramide, e rendere i Madoff membri rispettati della comunità.

 

Fra i truffati c’erano il premio Nobel Elie Wiesel, Steven Spielberg, attori come Kevin Bacon e poi ricconi, università, istituzioni, banche. E un sacco di “common people”, anche parenti e amici, rovinati. La sorella e il cognato della moglie Ruth, ormai sul lastrico, si misero a fare i tassisti, pur anzianissimi. La moglie quasi impazzì perché, rifugiata in Florida, non c’era giorno che, scoperta la sua identità, qualcuno mancasse di dirle: anch’io sono stato truffato da suo marito (ma forse la Florida non era il rifugio più adatto).

 

I sospetti c’erano da anni, ma le inchieste vere cominciarono solo nel 2005, quando Harry Markopolos, un gestore finanziario un po’ ossessionato che da anni segnalava Madoff alle autorità, mandò alla Sec, l’autorità di Borsa, un memoriale non più ignorabile dal titolo romanzesco “Il più grande hedge fund del mondo è una truffa” (da lì, ovviamente, un film). Poi la crisi dei mutui, che spinse i faraoni a chiedere i soldi indietro. Lui, Madoff, quando finalmente lo arrestarono, quasi sollevato, si disse stupito di come nessuno avesse mai indagato sul serio sui suoi affari. L’occhio di Dio non ci vedeva tanto bene. Sul motivo per cui lo facesse, si apre il solito abisso delle psicologie maniache. Forse un’infanzia coi genitori perseguitati da calamità finanziarie e dal fisco. Lui disse che all’inizio pensava di smettere presto, ma poi si trovò totalmente impelagato. Anche se sapeva che prima o poi l’avrebbero preso. Così ammise ogni colpa, preconizzando per sé e la sua stirpe la vergogna e la maledizione. Affidabile anche lì: la tragedia si abbatté puntuale sulla famiglia in una colossale nemesi, punizione suprema del Dollaro verso chi aveva osato truffare il sacro bene che regge l’America, la fiducia. 

  

Diventò l’uomo più odiato d’America. Al processo doveva andare col giubbotto antiproiettile. Poi, il carcere, condannato a 150 anni. L’anno scorso, sapendosi moribondo, chiese di poter tornare a casa. Non glielo permisero. Intanto, la famiglia distrutta: suicida un figlio. L’altro, morto di cancro. Anche lui, insieme alla moglie, provò a suicidarsi, la sera dell’arresto, nel 2008, ma non ci riuscirono (lei, prima di ingoiare le pillole, spedì per posta i gioielli più importanti ai parenti poi tassisti).  A chi gli chiedeva, negli anni d’oro, il segreto del suo successo, Madoff rispondeva teneramente che la sua era una piccola azienda famigliare. “Sulla porta è scritto il nome del padrone”, diceva. Il nome è l’unica cosa che è rimasta di tutta questa storia.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).