Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro (con al centro Alberto Beretta Anguissola) nel luglio 2003 alla Sapienza (archivio Ansa) 

Condannati da un granello di polvere

Chiara Lalli e Cecilia Sala

Nel maggio di 24 anni fa, alla Sapienza, il colpo di pistola che uccise la studentessa Marta Russo. Un libro ripercorre oggi il caso con tutti i suoi lati oscuri, dalle prime indagini alla sentenza definitiva. Ne anticipiamo alcune pagine

Da domani in libreria “Polvere. Il caso Marta Russo” (Mondadori, 180 pp., 18 euro). Anticipiamo in questa pagina alcuni passi del libro di Chiara Lalli e Cecilia Sala.


 

 

Sono passate cinque settimane dallo sparo. La sera del 14 giugno Salvatore Ferraro sta suonando alla chitarra Me and the Devil Blues di Robert Johnson, un brano che parla del diavolo che bussa alla porta. In quel momento sente bussare alla sua: “Polizia, apra!”. Quando gli abbiamo chiesto di quella notte, Salvatore ha cambiato tono di voce. Ha iniziato raccontandoci i dettagli: la posizione degli oggetti nella sua stanza, una strofa della canzone, il rumore dei passi per le scale. E’ stato difficile capire cosa stesse succedendo. I poliziotti gli chiedono di seguirli e lo portano alla questura di San Vitale, vicino al Quirinale. Lì comincia la sua attesa: “In una dimensione che ho sempre definito surreale, perché non si può definire né dolorosa, né di paura, ma quasi grottesca. Perché più si andava avanti e più si concretizza questa cosa, che io stavo per essere arrestato. Mi pareva veramente una follia. E molti mi hanno detto: ‘Ma come hai fatto a sopravvivere, anche semplicemente al primo giorno di galera, visto che sai di essere innocente?’. Ebbene, lì vivi con una sorta di speranza: ‘Be’, si accorgeranno subito, si accorgeranno domani mattina’”. Si accorgeranno di essersi sbagliati.


Salvatore Ferraro è un assistente universitario. Ha trent’anni, è calabrese ed è venuto a Roma per studiare Giurisprudenza. Vive con la sorella Teresa in un piccolo appartamento a pochi minuti dalla città universitaria. La persona con cui ha legato di più, tra quelle che ha conosciuto dopo essersi trasferito in una nuova città, si chiama Giovanni Scattone. Anche Scattone è un assistente di Filosofia del diritto, ha ventinove anni e vive con suo padre Giuseppe in una palazzina in cima alla salita di una strada tranquilla nella zona residenziale dell’Eur. Nella stessa notte Scattone viene arrestato mentre sta mangiando una pizza con alcuni amici al Foro Italico.

 


Il 20 maggio sono arrivati i risultati dei rilievi chimico-balistici fatti all’università. Una perizia della Scientifica dice che sul davanzale di una finestra dell’aula 6, l’aula assistenti dell’Istituto, quella dove Giovanni e Salvatore lavorano ogni giorno, c’è sicuramente un residuo di polvere da sparo. Gli inquirenti si concentrano sulle persone che la frequentano. Cercando di restringere il numero dei sospetti, scoprono che molti assistenti non erano alla “Sapienza” perché partecipavano a un convegno a Teramo o stavano facendo una supplenza in una scuola. Scattone e Ferraro, invece, non hanno un alibi. La perizia dirotta sull’aula 6 le indagini che fino a quel momento si erano concentrate sul bagno al piano terra, quello con le finestre che si affacciano proprio dove Marta Russo è caduta. E’ il bagno utilizzato dai dipendenti della ditta di pulizie, accanto al magazzino che loro stessi chiamano “il deposito delle munizioni”.


Tutto ciò che avviene dopo è una conseguenza di quella premessa: c’è un granello di polvere da sparo sul davanzale dell’aula assistenti. Una premessa sbagliata, perché ci sono particelle simili in altri luoghi dell’università e quel granello di polvere potrebbe essere anche un residuo di una fotocopiatrice o dei freni di una macchina. Una premessa poi smentita dalla letteratura scientifica in materia, dai bollettini ufficiali dei corpi di Polizia e dagli stessi periti nominati dalla Corte durante il processo.


Il capo della Squadra mobile entra in quell’aula e scopre, come ci ha raccontato, “la chiave di volta” che ha permesso di indirizzare le indagini verso la soluzione del caso: la presenza di un telefono. 


Dai tabulati risultano due chiamate: la prima alle 11.44, due minuti dopo lo sparo, e la seconda alle 11.48. La prima è diretta a casa Lipari e la seconda allo studio Lipari – Nicolò è un avvocato che a Roma conoscono tutti, un ex senatore e un professore ordinario di Diritto civile alla “Sapienza”. A telefonare non può che essere stata la dottoranda Maria Chiara Lipari, sua figlia. 

 


La polizia vuole sapere che cosa ricorda di quando è entrata in aula 6 poco dopo l’ora del delitto. Ci sono grandi aspettative su di lei, anche se sembra difficile dare per scontato che abbia visto qualcosa. Quando Maria Chiara entra sono già passati due minuti dallo sparo e, anche se l’aula 6 fosse con certezza quella da cui è provenuto il colpo, in quei due minuti l’assassino avrebbe avuto il tempo scappare. Viene convocata al commissariato di polizia dell’università nell’edificio giallo di due piani vicino a Scienze politiche. Quando ha telefonato alle 11.44 chi c’era nell’aula? “Non c’era nessuno”, risponde. 


L’interrogatorio prosegue per ore e ore, ma ci sono buchi nei verbali e per questo non sappiamo tutto quello che si sono detti. E’ ormai notte quando Lipari cambia versione e dice che nella stanza c’erano la segretaria Gabriella Alletto, l’usciere Francesco Liparota e un altro assistente universitario, Massimo Mancini. Sul conto di quest’ultimo sicuramente si sbaglia, perché ha un alibi che gli investigatori hanno potuto verificare.


Forse questa confusione può essere spiegata almeno in parte con le continue pressioni che ha subito. Sfogandosi al telefono con un suo amico, Jacopo Maggio, è lei stessa a raccontarlo. “Questo diceva: ‘Sputtano lei, sputtano suo padre! […] Per intimidirti, per costringerti. Tutto il pomeriggio sono stati a dirmi: ‘Lei è in una posizione delicata. Lei sa, mors tua, vita mea’ eccetera. Ma che, cioè, non stava né in cielo né in terra, capito? Che io stessi lì con dei ricordi precisi che però non volevo dire per paura e per cui loro mi dicevano ‘Sì, però allora ti incolpiamo a te, per cui dillo!’”. Lipari si lamenta soprattutto dei metodi usati da “un certo procuratore”. “Questi fino alle cinque di mattina hanno voluto assolutamente che dal subconscio, dal… veramente dall’ano, proprio, del cervello, mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine”.

 


Il 24 maggio il quotidiano romano Il Tempo titola: Università: superteste ha visto il killer. La superteste è Maria Chiara Lipari che, secondo la stampa, avrebbe riconosciuto l’assassino. Suo padre è arrabbiato perché la Procura avrebbe dovuto proteggere l’identità di Maria Chiara e si domanda com’è stato possibile che certe informazioni siano già finite sui giornali.


In questo clima di sospetti e di paure, Maria Chiara Lipari esce dal portone di casa e vede una macchina rossa parcheggiata pochi metri più in là con due uomini all’interno. E’ sicura che siano lì per lei: i due la indicano e poi parlano tra di loro con un marcato accento meridionale, probabilmente calabrese. Lipari comincia a camminare, la macchina la segue e lei è nel panico. Al telefono con il padre dice: “Ma se fosse quel calabrese, quel calabrese ci ha… Veramente ci può avere proprio degli amici con le armi, in casa in Calabria, proprio sotto al cuscino…”.


Intende dire: se a sparare a Marta Russo fosse stato “quel calabrese”? Si spiegherebbe perché ci sono due persone con accento calabrese che la seguono in macchina. Devono essere gli amici dell’assassino “con le armi sotto al cuscino”. Forse vogliono intimidirla. Adesso Maria Chiara Lipari sospetta che a sparare dalla finestra dell’aula 6 sia stato un calabrese. Salvatore Ferraro è calabrese, e questa è la prima volta che la dottoranda fa riferimento a lui come possibile responsabile dell’omicidio. Sono passate due settimane dal 9 maggio, due settimane in cui Maria Chiara non ha mai preso in considerazione questa ipotesi. 
Ma quei due uomini in macchina sono due poliziotti e non hanno niente a che fare con l’assassino né con Salvatore Ferraro. Non sono lì per minacciarla, ma per proteggerla.


Dopo pochi giorni Lipari mette a verbale di aver visto Ferraro davanti alla finestra dell’aula 6 nonostante non sia affatto certa dei suoi ricordi di quella mattina, come dice al padre al telefono: “Sì, la persona mi ha guardato e poi si è voltata, ho la sensazione che si sia voltata. Sì, si è voltata ma io in faccia l’ho vista, cioè ho la sensazione di averla vista in fac… Poi siccome è una persona che sta sempre lì, io non potevo avere la certezza a caldo, poi, che fosse lui quella mattina, in quel minuto. Più passa il tempo e più invece si focalizza questa cosa, cioè si focalizza questa immagine. Invece quello è il nome che posso fare in definitiva, perché quella è la faccia che mi ricordo là dentro”. Adesso anche Nicolò Lipari sembra cambiare atteggiamento verso la figlia, e le dà un suggerimento: “In questo momento non aggiungerei nulla perché dai la sensazione, veramente, di voler fare l’angelo vendicatore”. Nell’aula bunker dove si svolge il processo di primo grado, Maria Chiara Lipari dirà molte volte di essersi sforzata e di non ricordare “ancora”. E confesserà il suo più grande timore: “Avevo paura di, così, di metterci del mio, diciamo. Cioè, questa è stata sempre la mia paura: di aggiungere qualcosa”.


Le chiedono anche delle sue sedute di psicanalisi. “Io non ho interessi legati immediatamente alla sfera materiale, non mi interessano i vestiti, le cose firmate. La psicoanalisi è una cosa che costa, come sforzo personale e anche in termini economici, però è ciò che corrisponde al mio tipo di interesse”. E il suo modo di ricordare, la sua “esasperata percettività”, i suoi “ricordi subliminali”, la memoria a cui viene in soccorso lo “yoga”, effettivamente si addicono più al tipo di ricostruzioni che si elaborano sul lettino dello psicanalista che non nella stanza di un commissariato, davanti a pm a che indagano su un caso di omicidio.
Dopo aver identificato tutti i presenti nella stanza, la dottoranda può finalmente partire per Israele a cuor leggero e andare a riposarsi. A don Chino, il suo compagno di viaggio, dirà: “Mi sono sforzata al di là di quello che avevo visto”.

 


Intanto, la Procura ha iniziato a interrogare anche le altre due persone che Lipari ha collocato in aula 6 due minuti dopo lo sparo: Gabriella Alletto e Francesco Liparota.


“M’hanno infilato dentro come una stronza”. E’ la mattina di giovedì 12 giugno, come tutte le mattine Gabriella Alletto esce di casa, in un complesso residenziale nella periferia sud-est di Roma, prende l’ascensore per scendere al piano -1 dove c’è il garage, sale in macchina, apre il cancello automatico e guida nel traffico per raggiungere la città universitaria. Arrivata all’Istituto di Filosofia del diritto, cammina verso la segreteria, appoggia la borsa e si siede alla sua scrivania. Lì gli inquirenti hanno messo una microspia per ascoltare le sue conversazioni. La mattina di giovedì 12 giugno, dopo che il giorno prima era stata interrogata fino a notte fonda, entra nella stanza e la prima cosa che dice è: “M’hanno infilato dentro come una stronza”.


Alletto davanti ai pubblici ministeri ha continuato a dire di non essere mai entrata in aula 6 la mattina dell’omicidio, smentendo la versione di Lipari. La segretaria non è l’unica a pensare che i ricordi di Maria Chiara siano confusi. C’è anche un testimone che la mattina del 9 maggio era all’Istituto di Filosofia del diritto e che, dopo averlo a lungo cercato, siamo riuscite a incontrare al bar di una stazione nella primavera del 2019. Vuole rimanere anonimo soprattutto perché a noi ha raccontato delle cose importanti che all’epoca non si era sentito di dire ai magistrati. E’ sicuro che Lipari ricordi male la mattina del giorno del delitto. “Io mi ricordo che alcune delle cose che la Lipari diceva di aver fatto con l’Alletto, le aveva fatte con me. E quindi io pensai: la Lipari non se ricorda niente! Perché io mi ricordo con certezza che quello che lei racconta in realtà non è vero. Cioè la Lipari a un certo punto dice una cosa del tipo ‘sono andata in aula 4, quella di fronte alla 6, sono andata all’aula 4 per vedere se funzionava quel fax, allora è venuta la Alletto e abbiamo provato con l’Alletto’. No, no, lei ha provato con me a fare questa cosa! Di questo io all’epoca avevo un ricordo nitidissimo. Quindi io all’epoca pensai: ‘ma questa ma che sta raccontando?!’”.


Nell’interrogatorio di Gabriella Alletto dell’11 giugno i due procuratori sembrano recitare dei ruoli che molte volte abbiamo visto nelle serie televisive e nei film polizieschi: il poliziotto buono e il poliziotto cattivo. Lasperanza, come ci ha raccontato, è il poliziotto buono. Ormanni fa il poliziotto cattivo. “I casi sono due: o lei è responsabile di omicidio, o lei è responsabile di favoreggiamento personale. Non si scappa! Se non è colpevole d’omicidio, è favoreggiamento personale! Per omicidio! Lei va certamente in carcere e non esce più!”. Alletto ripete di non sapere chi sia stato, poi inizia a piangere: “Io non lo so quello che devo fare”. Ormanni strilla: “La prenderemo per omicida!”. E Alletto, singhiozzando: “ma se io non ho visto chi ha sparato, che cosa devo dire? […] Perché se io vedo una persona fare un gesto, una cosa, io se la vedo la vedo. Ma se non la vedo io che faccio? Oh dio mio! […] Non mi crederete! Perché se io non ce so’ entrata lì dentro, ma come lo devo di’? Come lo devo dire? Io, io ora guardi, va a fini’ che m’ammazzo pe’ ‘sta storia!”. E Ormanni: “Vabbè che esagerazione…”. Gabriella Alletto: “Io non campo più! Dio mio. […] Mi impiccheranno per aver detto la verità!”. Poi rimane sola con il cognato, e domanda: “Io devo essere una persona leale o sleale?”. La mattina dopo, in una informativa della Questura, per la prima volta la presenza di Alletto nell’aula 6 è data per certa: la segretaria viene ritenuta responsabile – in concorso con altri – dell’omicidio.


Passano ancora tre giorni e Alletto, interrogata dal capo della Digos, dirà di aver visto Scattone di fronte alla finestra con una pistola in mano e Salvatore Ferraro al suo fianco. 


Paolo Napoli, che quel giorno ha accompagnato Gabriella in Questura per fare la deposizione, ha raccontato: “Lungo il tragitto mi venne quasi spontaneo porle questa domanda: ‘ma lei in questa aula 6 c’era o non c’era?’. E in maniera altrettanto spontanea, senza esitazione della signora Alletto, lei mi disse: ‘no, io non c’ero’”.


Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro sono stati condannati in via definitiva per aver ucciso Marta Russo. Le prove fondamentali su cui si fonda la sentenza di colpevolezza sono tre: la perizia sbagliata che ha portato all’aula 6, la testimonianza di Maria Chiara Lipari e la testimonianza di Gabriella Alletto.

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