Ricordando Carla Fracci
"Sorridi, non si deve vedere la fatica". La legge universale delle ballerine
Carla Fracci era rigore, disciplina e fatica ammantati di passione e grazia. Guardavo quella miscela inarrivabile e pensavo che fosse tutto quello di cui avrei avuto bisogno, non solo per il mio saggio di danza, ma anche fuori e dopo di lì
Mia nonna mi fissava inorridita quando da piccola infilavo le mie scarpette da ballo, quelle per andare sulle punte, per me orgoglio massimo: ti rovinerai i piedi, mi diceva, le ballerine hanno dei piedi bruttissimi. Non le credevo, e non mi importava nulla del futuro dei miei piedi, così come non capivo niente del significato di Giselle: guardavo Carla Fracci che la interpretava e sognavo assieme a lei, senza perdermi nei dettagli e nelle spiegazioni, nello strazio di Giselle che muore d’amore ma non riesce a morire in pace, deve vendicarsi per poter smettere di straziarsi. La danza era assenza di turbamenti, o forse era avere dieci anni che mi teneva al riparo da tutto, anche dalla ossessione che mi sarebbe venuta molto più tardi, sul mostrare o no i miei piedi. Carla Fracci era rigore, disciplina e fatica ammantati di passione e grazia: io guardavo quella miscela inarrivabile e pensavo che fosse tutto quello di cui avrei avuto bisogno, non solo per il saggio, ma anche fuori e dopo di lì.
Ripensare ora al mio immaginario legato a lei e alla danza mi fa sorridere: Carla Fracci diceva di essere stata presa alla Scala solo per il suo “bel faccino” (era troppo gracile per essere una ballerina, fu ripescata al secondo giro di selezione), cosa che oggi nessuna donna si sognerebbe di ammettere mai. Eugenio Montale, che l’ammirava tantissimo, le dedicò una poesia, “La danzatrice stanca”, in cui celebrava il suo ritorno sul palco dopo la maternità: “Torna a fiorir la rosa”, scriveva Montale, “la rifioritura dopo la convalescenza” – un’altra cosa che oggi nessuno si sognerebbe di dire mai: se dici convalescenza vuol dire che la maternità è una malattia.
Carla Fracci raccontava la danza come una scoperta casuale diventata – per l’evidente talento, ma su questo lei non avrebbe mai indugiato: faceva parte di quelle donne che non si dicono brave da sole, aspettano che a farlo siano gli altri – la sua vita, con il padre tranviere che quando passava sotto la Scala suonava la campanella festoso. Non sapevo niente quando ero bambina, non m’importava di nulla, ho capito dopo che Carla Fracci era stata una protagonista della mia formazione, mi aveva insegnato che grazia e leggerezza sono un’arte rara che non ha a che fare con i movimenti del corpo, così come l’aspetto fragile era soltanto parte di una volontà e di una personalità di ferro.
Ho ricominciato a ballare dopo tanti anni, ho un’insegnante di danza aspra come quella che avevo da piccola, appassionata e rigorosa come ancora era Carla Fracci nella masterclass che ha tenuto a Milano lo scorso gennaio. Dice le cose che sentivo da bambina e che oggi suonano come certe lezioni che non sapevi di aver imparato, in quell’età in cui tutto viene facile e veloce. Una frase in particolare è quella che dà il senso della danza, del fascino di Carla Fracci e della mia formazione: “Sorridi, non si deve vedere la fatica”. Questa è la legge universale delle ballerine, l’antidoto che ho ritrovato, pur essendo diventata una danzatrice occasionale, alle lagne, all’indignazione, al vittimismo miei e di chi mi sta intorno. Forse anche questa frase oggi non si può dire più, implica finzione e pudore, se sei stanca devi gridarlo forte, altro che sorridere per compiacere il pubblico. Ma quando la mia nuova insegnante di danza l’ha detta, roteando una gamba come io mai più riuscirò a fare, ho capito che cosa mi aveva stregato di Carla Fracci e della danza: la grazia, la leggerezza e il sorriso come prima scelta, e se è una posa pazienza, per urlare la fatica ci sarà tempo.