Ricordando carla fracci
Passionale e temeraria, era pura e leggerissima tempra milanese
Fracci rappresentava il lato bello della promessa di ascesa sociale di cui Milano è stata portatrice per secoli. Sotto lo scialle bianco, era capace di fulminarti se avevi la sventura di trovarti sul suo cammino
Carla Fracci è morta nelle stesse ore il cui l’Accademia del Teatro alla Scala presentava, ancora in via digitale, il programma della prossima stagione, e a molti è sembrato una nemesi, o forse la chiusura perfetta di una perfetta parabola di milanesità d’antan: la figlia del tranviere che diventa la più grande stella della danza del Novecento come Maria Taglioni lo era stata del secolo precedente.
Un elenco sterminato di interpretazioni, premi, onorificenze; perfino libri di ispirazione per le bambine e un serial in preparazione per la Rai. Una personalità d’acciaio come lo scampanellio di saluto che il padre non mancava mai di farle quando passava con la sua vettura sotto le finestre dell’Accademia. “La Fracci” degli infiniti articoli di costume di Camilla Cederna, la prima vera icona pop di una disciplina che, forse perché durissima e fisicamente esclusiva, la gente tende a liquidare come elitaria, rappresentava il lato bello della promessa di ascesa sociale di cui Milano è stata portatrice per secoli: la città degli Angelo Motta e poi dei Leonardo Del Vecchio e dei Silvio Berlusconi, che sapeva innestarsi a meraviglia con l’alta borghesia illuminata dell’Umanitaria e la sua evoluzione radical chic nel Fai di Giulia Crespi. La città della tenacia, del puntiglio, che sarebbe fin troppo facile definire ormai sporcata dall’imprenditoria dello stupro chimico, dei Genovese e di quell’altro che tramortiva le sue vittime a benzodiazepine e di cui non ricordiamo neanche il nome perché non ci interessa e rivorremmo la città degli scampanellii dei bravi papà.
Carla Fracci era pura e leggerissima tempra milanese, che significa incarnare in sé il cigno bianco e il cigno nero del famoso laghetto: educazione formale ineccepibile, sorridente spietatezza. L’aveva riconosciuto anche lei, in una recente intervista: “Sono passionale e temeraria”. Sotto lo scialle bianco che era il suo accessorio identitario dal periodo della gravidanza, Fracci era capace di fulminarti se avevi la sventura di trovarti sul suo cammino, fosse quello banale dal foyer al palco (detestava la folla, odiava che per caso ti fossi vestita di bianco anche tu) o quello della vita.
Le cronache teatrali ricordano l’intemerata che fece una decina di anni fa a Gianni Alemanno, sindaco di Roma, che non aveva voluto rinnovarle il contratto di direttore del corpo di ballo dell’Opera: “Vergogna, farabutto”, gli gridò in mezzo alla sala: “E non lo dico per me, ma per il futuro di questo teatro”. Alemanno le ritorse contro le sue stesse parole (“All’Opera bisogna dare spazio ai giovani e voltare pagina”) e fu un segno di grave miopia, perché Carla Fracci era giovane e frizzante ancora, come dimostrò poche stagioni dopo in uno strepitoso duetto con Virginia Raffaele che aveva deciso di imitarla. Quell’apertura all’autoironia e alla pacificazione le aveva aperto nuovamente le porte della Scala: lo scorso gennaio era tornata nelle “sue” sale su invito del direttore del Ballo Manuel Legris per preparare le coppie di interpreti della ripresa di Giselle, la sua pièce de résistence, in due masterclass trasmesse su RaiPlay e Rai 5 con ottimi risultati. “La penseremo sempre con affetto e gratitudine”, dice adesso il sovrintendente Dominique Meyer, “ricordando il sorriso degli ultimi giorni passati insieme, in cui si sentiva tornata a casa”. Era stato un gesto di gentilezza, per quel cigno nero che non aveva mai saputo immergersi del tutto nel borotalco del candore.