I fantasmi di Cosa Nostra

Riccardo Lo Verso

I funambolismi di Brusca, i racconti visionari degli altri pentiti, l’evanescenza del boss Matteo Messina Denaro.

“L’avvenire appartiene ai fantasmi”, diceva il filosofo Jacques Derrida. Nella spettralità del pensatore francese l’apparire faceva vacillare l’essere. Un concetto che, traslato nella giustizia, fa vacillare la verità. Ci allontana da essa. Si resta schiacciati dal peso dei fantasmi, ossessionati dalla loro presenza-assenza. Forse bisognerebbe cambiare approccio metodologico. Nell’affannoso tentativo di dare un’identità ai personaggi misteriosi che popolano le indagini si potrebbe cominciare dal dress code. Come si vestono i fantasmi di Cosa Nostra, in abiti eleganti stile 007 o da mafiosi ordinari? Oppure in tenuta mimetica, che va molto di moda? Saperlo potrebbe servire, ad esempio, a indirizzare le indagini sull’uomo dei servizi segreti che, secondo Pietro Riggio, uno degli ultimi pentiti-sceneggiatori, premette il telecomando che azionò il tritolo usato per la strage di Capaci. Mica fu Giovanni Brusca, il boia di San Giuseppe Jato crede di essere stato lui, ma fu qualcun altro. Brusca, un fantasma vittima di un altro fantasma. Per 25 anni – è stato scarcerato da pochi giorni per fine pena – è scomparso e riapparso sulla scena, pronto a materializzarsi per puntellare i teoremi accusatori. Un permesso oggi e uno domani: sono un’ottantina quelli goduti dallo strangolatore del piccolo Giuseppe Di Matteo e killer di un numero indefinito di omicidi. Una manciata di giorni di libertà ogni mese per un lungo periodo, salvo uno stop quando gli contestarono che, mentre era in permesso, si occupava di affari personali. In particolare della compravendita di un immobile. Fu processato e assolto per estorsione, poi derubricata in violenza privata. Andò prescritta, invece, un’ipotesi di intestazione di beni.  


Al pentito è stato concesso di uscire dal carcere per incontrare moglie e figlio in albergo. Oppure festeggiavano il Natale tutti insieme, sotto l’occhio vigile degli agenti del Gom. Come è stato magnanimo, allora sì, lo Stato nei confronti del pentito tanto caro all’antimafia a tal punto che, se fosse dipeso dai magistrati della Direzione nazionale, che diede parere favorevole, Brusca avrebbe finito di scontare la sua pena agli arresti domiciliari. Rientrava dai permessi premio giusto in tempo per essere ascoltato al processo sulla trattativa Stato-mafia. Nessuno, o quasi, gli ha contestato i ricordi tardivi. Perché mai avrebbero dovuto farlo, visto che una volta smascherate le patacche di Ciancimino jr, Brusca regge da solo il peso del testimone chiave. 


Oggi la scarcerazione, che non è un regalo, provoca sdegno e manda in soffitta la storia dei permessi premio concessi a raffica da una manica larghissima e quando ancora il fine pena era molto, molto lontano. All’improvviso, dopo anni di silenzio e nonostante le domande specifiche, Brusca si ricordò della trattativa Stato-mafia, del papello, di Vito Ciancimino e soprattutto di Calogero Mannino, assolto con sentenze ormai definitive. Speriamo che adesso a Brusca non sovvenga il ricordo dell’agente segreto che si prese gioco di lui e degli altri suoi compari azionando il telecomando Capaci. Proprio come sta accadendo nel caso di un altro fantasma, il mister X che armeggiava nel garage della periferia di Palermo dove i boss imbottirono di tritolo la Fiat 126 utilizzata per fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. E ancora per l’artificiere “in abito scuro, elegantissimo”, che i mafiosi d’America inviarono in Sicilia per preparare l’attentatuni contro Giovanni Falcone. Le ultimissime e roboanti dichiarazioni di Maurizio Avola, killer catanese di 80 omicidi, fra cui quello del giornalista Pippo Fava, pentito smemorato e protagonista del libro di Michele Santoro dal titolo definitivo “Nient’altro che la verità”, hanno sparigliato le carte. Dal 2010, quando della strage di via D’Amelio ha iniziato a parlare Gaspare Spatuzza, uomo dei fratelli Graviano, stragisti di Brancaccio, si cerca l’uomo dei servizi segreti che si trovava nel garage assieme ai mafiosi. Agli investigatori parve di essere giunti alla svolta quando Spatuzza, killer del beato padre Pino Puglisi, in un confronto all’americana riconobbe Lorenzo Narracci, ex agente della Dia. Solo che le certezze del mafioso vacillarono presto. Non era certo al cento per cento che fosse lui. Per Narracci arrivò l’archiviazione, ma a conclusione di anni di indagini e sospetti non proprio edificanti. Per la verità il suo nome non era nuovo, visto che era già stato indagato nell’inchiesta sui mandanti esterni assieme a Bruno Contrada, altro uomo per tutte le stagioni dei misteri. Ebbe la sventura, Narracci, di trovarsi in mezzo alla tempesta sollevata dalle chiacchiere di Massimo Ciancimino, che scimmiottava a distanza le parole di Giovanni Brusca. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo, quando era ancora l’icona dell’antimafia preferita da Antonio Ingroia, coccolato dai pubblici ministeri come il testimone mandato dalla Provvidenza a svelare il patto sporco a cavallo delle stragi del ’92, riconobbe in Narracci il compare del “signor Franco”. Il signor Franco (o Carlo, perché aveva pure il vezzo di usare più nomi) è il fantasma per eccellenza, il perfetto uomo nero da romanzo criminale. Dalle sue mani eteree sarebbe passato nientepopodimeno che il papello, la lista delle richieste che Totò Rina avanzò allo Stato per fermare le bombe


Il signor Franco, cerniera tra Cosa Nostra e i servizi segreti deviatissimi, protagonista della storia d’Italia degli ultimi quarantanni, spione malefico, autore delle peggiori nefandezze, è rimasto confinato ai grotteschi ricordi di Massimo Ciancimino, il quale tenne in serbo il coup de théâtre che finì per mandare in frantumi quel briciolo di credibilità che difendeva con le unghie e con i denti. Immaginate la scena: Ciancimino jr sta guardando la tivù e salta sulla sedia quando riconosce il signor Franco. Addirittura in diretta sugli schermi di Rai 1, durante una delle tanti crisi di governo. Era Ugo Zampetti, ex segretario della Camera dei deputati ed ex segretario del Quirinale. Fu solo l’ultimo riconoscimento farlocco. Già in precedenza, di fronte a un album con 33 scatti, il supertestimone della trattativa Stato-mafia pronunciò le parole “mi sembra il signor Franco” davanti alle immagini contrassegnate dai numeri 11,12, 13, 14, 19, 22 e 23. Più che un interrogatorio sembrava l’estrazione del lotto. Spatuzza ha dato fiato alla eterna tesi che dietro le stragi ci siano menti raffinatissime in combutta con i corleonesi di Totò Riina. Avola lo smentisce. Mafia, nient’altro che mafia. Nessun uomo dei servizi segreti. Spatuzza si sbaglia: in quel garage c’erano Avola o il catanese Aldo Ercolano. I tempi cambiano: per decenni a Caltanissetta hanno dato credito a un malacarne di borgata come Vincenzo Scarantino, salvo poi raccontare la favoletta che i depistatori di Stato gliel’hanno fatta sotto il naso. Ci sono voluti decenni e soprattutto nuovi magistrati per smascherare l’inverosimile ipotesi che Totò Riina avesse coinvolto un personaggio con la sua reputazione nel progetto stragista.

Ora è diverso, tanto che il procuratore nisseno Gabriele Paci si è affidato a un comunicato stampa per scaricare Avola. Si fa largo, però, l’ipotesi che Avola sia stato eterodiretto per depistare. Da chi? Dalle menti raffinatissime, naturalmente. A proposito di delinquenti di mezza tacca a cui sarebbero stati affidati compiti delicati. L’errore lo avrebbero commesso non solo i mafiosi, nel caso di Scarantino, ma anche i servizi segreti. Almeno stando al racconto di Riggio, ex agente della polizia penitenziaria. Altro pentito smemorato, altra corsa sulla giostra dei fantasmi. Riggio dice che fra gli attentatori di Capaci c’era l’ex poliziotto Giovanni Peluso conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Quest’ultimo non vedeva l’ora di confidargli di avere riempito di esplosivo il canale di scolo dell’autostrada di Capaci, servendosi di uno skateboard. Un personaggio, Peluso, sfuggito ai radar di investigatori, mafiosi e pentiti di Cosa Nostra per decenni. Uno sconosciuto di cui nessuno ha sentito parlare, con precedenti per sfruttamento della prostituzione e una ribalta mancata quando sostenne di potere fare arrestare Bernardo Provenzano. Peluso, così racconta Riggio, se andava in giro con una Bmw di cui annotò la targa – peccato che fosse quella di un trattore – a volte in compagnia di una donna. Ed ecco un altro fantasma. 


Il dress code al femminile coglie impreparati. Chi è costei? Boh, sul suo conto Riggio aggiunge che era un agente segreto e pure libico. I libici, dunque, parteciparono alla strage di Capaci. E se fosse la stessa donna che indossava il famoso guanto in lattice rinvenuto a una sessantina di metri dal cratere provocato dall’esplosione assieme a una torcia e a un tubetto di mastice? I periti hanno estrapolato i codici genetici “di almeno altri tre individui dove però la componente femminile attribuibile a uno o più soggetti di sesso femminile risulta essere maggiormente rappresentata”. A parlare di una donna del mistero era stato un altro pentito fuori tempo massimo, il calabrese Nino Lo Giudice, che per decenni, nonostante il suo pentimento, ha taciuto la circostanza che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato l’ex poliziotto Giovanni Aiello, alias faccia da mostro, personaggio su cui si è concentrato l’imbuto dei misteri. E si era pure dimenticato che faccia da mostro aveva partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio nel 1989. Faccia da mostro è morto nel 2017, stroncato da un infarto mentre tentava di riportare la sua barca a riva. “E’ lui” l’uomo che bussò a casa dell’agente, disse senza esitazione Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto assassinato. Sul riconoscimento di faccia da mostro gli stessi pubblici ministeri dissero che bisognava tenere conto del comprensibile “condizionamento” esterno che faceva e fa di Aiello il colpevole perfetto. Nella richiesta di archiviazione dell’indagine i pm scrivevano che il riconoscimento non aveva “quella piena valenza probatoria che sarebbe indispensabile”. Era trascorso troppo tempo, Vincenzo Agostino era stato influenzato dalla presenza massiccia delle foto di Aiello sui media e poi nel corso degli anni aveva già riconosciuto altre persone. Aiello è morto da innocente. Come si dice in questi casi: si è portato i segreti nella tomba. 


I morti reggono il baraccone dell’antimafia dei misteri meglio dei vivi. Un po’ come i fantasmi, un po’ come Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei padrini latitanti. Il capomafia trapanese è l’architrave dei misteri. Quando lo arresteranno – si spera prestissimo – verrà giù tutto. Si smetterà di credere che ci sia sempre qualcuno nella stanza dei bottoni pronto a spifferargli che stanno andando ad arrestarlo. Deve essere qualcuno che ha ricevuto l’incarico da qualcun altro. Sono ventotto anni che Messina Denaro è latitante. Gli uomini che gli danno la caccia sono cambiati più volte, le gole profonde devono essersi adeguate. Se ne facciano una ragione gli uomini e le donne, e sono tanti, che sacrificano tempo e affetti per cercarlo. La migliore intelligence italiana gabbata chissà da chi. Proprio come un Giovanni Brusca qualunque che senza saperlo stava recitando la parte dello stragista. Messina Denaro è un personaggio vero, che esiste da qualche parte. Niente a che vedere con gli uomini del mistero che vivono nella sola mente dei collaboratori di giustizia. Come colui che, racconta sempre Avola, accompagnava proprio lui, Messina Denaro, quel giorno di febbraio-marzo del 1992 in cui si incontrarono a Catania. I corleonesi dovevano andare ad uccidere Claudio Martelli e Giovanni Falcone a Roma e avevano bisogno di armi. Avola aveva preparato due kalashinkov, un bazooka, due bombe a mano due calibro novex21. Poi Totò Riina decise di agire a Capaci. Dell’uomo misterioso Avola nulla sa, se non che “era sfrontato, altro un metro e settanta”, ma soprattutto “vestito elegante, con occhiali da sole”. L’avvenire apparterrà pure ai fantasmi, ma la giustizia ha bisogno di altro.