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L'Instagram dei desideri. Creme, lamenti e fatturati

Io boomer e le fagiane di Estetista Cinica

Michele Masneri

Il racconto di 24 ore vissute alle prese con un’influencer dal nome buffo. E con i suoi milioni di follower che sono anche acquirenti: e ti dicono che cosa pensano di te

Chi sono i nuovi intoccabili?  E cosa vuol dire essere randellati per 24 ore dalle armate di un'influencer con 800 mila follower? E fino a quando Instagram potrà essere quella terra di mezzo senza regole, di cui pochissimi parlano con cognizione, mentre noi stiamo lì tutti ancora a dire "ooohhh" e "aahh", come scimmie davanti a una scatola magica, senza dotarci di strumenti critici per decifrarla? Interrogativi scomodi nella calura. E però, ecco il diario di 24 ore vissute pericolosamente, bullizzati da un'influencer dal nome buffo di “Estetista cinica”. E dalle sue seguaci, le gloriose "fagiane".

 

 

Per i pochi che non la conoscessero, Estetista Cinica, così, senza articolo, è il nome d’arte di una sveglissima ragazza bresciana, nome vero Cristina Fogazzi, che si è inventata un business. Vende prodotti di bellezza, sia online che nei suoi affollatissimi negozi, e insieme è un’influencer con oltre ottocentomila followers. Il suo format è un po’ quello della ragazza normale che, sommamente ironica, dà consigli di bellezza, ma soprattutto propone un reality show di sé stessa buffo e divertente. E’ diventata celebre grazie a magliette con la scritta: “Who the fuck is estetista cinica? Chi c***o è l’Estetista cinica?”. Ora lo sappiamo. Tutto questo l’ha portata a un piccolo impero: 61 milioni di fatturato, e l’immane seguito. La Fogazzi l’avevo intervistata, mi fa simpatia, ha l’accento degli animal spirits delle valli lombarde,  ci siamo sentiti una volta sola al telefono, due anni fa, per quell’intervista, qui sul Foglio. Abbiamo capito di aver fatto lo stesso liceo classico, a Brescia (non è difficile, a Brescia, credo ce ne sia  uno solo).

 

Ma non è la storia di una rimpatriata scolastica, questa. E' la storia di un boomer divorato dalle fagiane. Va così: lunedì la trovo all’inaugurazione della mostra dedicata a Damien Hirst alla Galleria Borghese a Roma. E’ lì, a ora di pranzo, all’anteprima-stampa, tutta sgargiante nel suo vestito blu elettrico, che gesticola verso il suo telefono, con dei cavi che le penzolano dalla borsa, come ogni influencer che si rispetti, e mi colpisce in quel luogo, tra noi polverosi critici e giornalisti che ci trasciniamo tra le statue di Bernini e le opere di Hirst (ennesima riproposizione del tema contemporaneo/classico); scrivo proprio questo nel pezzo: che in una mostra che gioca sul rapporto antico/moderno, l’unico sprazzo di contemporaneità  è la presenza della Cinica. Sono due righe, in un pezzo di cinquemila battute. E l’ironia mi sembra ovvia  (la Cinica è appassionata di arte e fa un sacco di storie che vengono avidamente consumate dalle sue followers, da lei chiamate  appunto “le fagiane”).

 

 

Il giorno dopo mi alzo e trovo sul telefono decine di notifiche. La Cinica, furiosa, ha dissezionato e screenshottato l’articolo – deve avere un servizio di rassegna stampa pazzesco, o dei suggeritori occulti, o forse legge segretamente il Foglio – e capisco che si è arrabbiata tantissimo. Fa una decina di stories che sono un indomito mix di lamento e di accusa: lamento perché avrei inteso dire che lei, in quanto estetista, non avrebbe diritto a parlare d’arte (!). Lamento soprattutto perché, dice, lei poveretta non ha potuto laurearsi e ha dovuto fare l’estetista mentre io sì, e ho potuto fare la mia “luminosa carriera al Foglio” (doppio !).  Ma cinica: qui siamo uomini di mondo, abbiamo fatto il liceo classico a Brescia. Ti pare che non capisco che un influencer di enorme successo possa portare pubblico a un museo? Ma niente, è il trionfo della strumentalizzazione. Prende anche degli screenshot da Twitter, dove parallela parte la polemica. Qualcuno scrive: “anche Mussolini aveva molti follower”. Tutto fa brodo: screenshot e storia: “dicono che sono come Mussolini”.

 

A quel punto verso ora di pranzo lo spiedo del fagiano è pronto. Lo spiedo è peraltro un piatto tipico delle valli bresciane, si fa con la cacciagione impallinata, di volatili talvolta cacciati di frodo. Una  influencer con 800 mila follower che ti fa dieci stories contro è un’esperienza interessante, se ti piacciono le emozioni forti. Perché subito cominciano ad arrivare i messaggi delle fagiane. Le fagiane la difendono e mi accusano. Ecco i vari “maschilista”, “ok boomer”, “vergognati”, “con questo articolo hai offeso migliaia di donne!”; per un po’ sono divertenti, ma dopo le prime ore mi sprofondano nell’angoscia. Forse è un problema mio. Non che ci sia niente di violento. Però continuano ad arrivare. Passi la giornata immerso nel telefono.

 

Povero ingenuo, mi chiedo perché si sia arrabbiata tanto. Uno dei punti su cui insiste è il mio aver sottolineato che lei dice “Galleria Borghese” senza articolo, ma l’ho scritto non per segnalare burinaggine, semmai nordicità, milanesità (Vado “in Galleria Borghese”, “in San Babila", ecc). Il tema poi su cui colpisce di più è quello della laurea: la parola ricorre ossessivamente : “Io che non ho potuto prendere la laurea”… “io che non ho laurea posso entrare in un museo?”. E lì penso anche: ma come, hai fondato il tuo impero, dovresti essere orgogliosa di aver lasciato gli studi, aver fatto il famoso drop out, come ogni startupper che si rispetti. Invece di essere sul tuo aereo privato sei lì ancora a sognare quel pezzo di carta! Cinica, ma a te ti ha rovinato il liceo classico (che ingenuo che sono, penso che sua tutto vero, che si sia offesa veramente. Sono veramente un boomer alla deriva).

 

Durante l’attacco fagianesco ecco un’altra storia – la Cinica posta una sua foto tra le carte geografiche dei Musei Vaticani a Roma e mi accusa anche, a quel punto, retroattivamente, nell’intervista che le ho fatto qui sul Foglio due anni fa, di aver sbagliato la valle da cui proviene: "ED E’ BRESCIANO, pensate". Altra reprimenda, altri improperi dalle sue armate.  E' vero, ho sbagliato valle, Val Trompia contro Val Camonica: penso piuttosto che nella sua, la Val Trompia, c’è la Beretta e ci sono decine migliaia di aziendine che fanno tutti i fucili da caccia e le pistole esportate in Italia e nel mondo. Sono posti ricchissimi e feroci. A Marcheno, il delitto dell’altoforno. A Lumezzane girava la leggenda che fosse il posto con più sportelli bancari per abitante al mondo. Genius loci, fagiane, soldi e bellicosità?

 

Sei pazzo, mi dicono, a scrivere  della Cinica. E’ temutissima da tutti, incute terrore. Dopo ore di stories contro di me il mio stato psicofisico ne risente, il telefono mi ha risucchiato, stare davanti a Instagram per 12 ore è come stare davanti a Retequattro, anzi è come essere menato in un talk show su Retequattro per 12 ore, ma dal divano di casa. Le sue stories sono perfette: foto sgranate, fumetti, animazioni. Io sono un boomer solo col mio telefono in pigiama.

 

A un certo punto mi sento la  febbre  (i residui del Johnson and Johnson?). Sui social continua la… come chiamarla? Bullizzazione? In teoria si chiama flame, cioè rissa online. Le fagiane mannare continuano a fiammeggiarmi – il tema è sempre “sei snob, sei elitario, vedi come t’ha asfaltato!”. “Allora io che faccio ragioneria non posso entrare in un museo, eh?”. “Per te le estetiste non possono andare alle mostre!”. Le Fagiane, penso: che strano incredibile pubblico, seguaci fedeli che non solo comprano le tue creme di bellezza, ma ti  difendono anche da attacchi esterni. Ah, Gramsci, ah, Marx! Ah, le fagiane mannare.

 

Alcune fagiane in particolare creano cortocircuiti. Parte tutto un dibattito che, nella logica instagrammatica, non può che svolgersi sotto l’ultima foto pubblicata sul mio profilo: casualmente ritrae me e mio fratello qualche settimana fa. Mio fratello Giovanni, beato lui, non ha Instagram. Quindi non sa cosa sta succedendo sotto la sua faccia. Una certa “brunettelasagna” scrive: “ciao, sono laureanda in giurisprudenza, mi piace l’arte ma compro i prodotti dell’Estetista Cinica, secondo te sono degna di andare alla mostra di Galleria Borghese?”. Le risponde un altro. Un certo Erik_eski: “ma basta! Avete rotto i cog***** voi fagiane. Siete una setta di oche che neanche si accorgono di essere manipolate da una a cui frega solo di vendervi i suoi prodotti”. A quel punto lei gli risponde pensando che sia io a scrivere: “beh, i suoi prodotti funzionano, i contenuti che posta anche. E tu, genio dei social, cosa ci offri a parte maschilismo e pensieri obsoleti? (faccina perplessa)". Il dibattito tra i due prosegue per ore, con lei che sempre è convinta che sia io a risponderle. “Comincio a pensare che come giornalista tu abbia qualche pecca”, mi sibila, e questa discussione va avanti per ore, sotto il faccione di mio fratello ignaro.

 

Arrivano prese di posizione. L’avvocata dei diritti civili Cathy La Torre scrive su Twitter. “l’articolo di @michimas mi ha solo confermato che faccio bene a non leggere più il Foglio. Cazzo: questo mi dispiace e glielo spiego, le rispondo, che mi dispiace, ma lei non mi fila proprio. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa un avvocato che difende i diritti civili della gogna mediatica subita su Instagram da una persona, da parte di un’organizzazione - perché Estetista Cinica è un'organizzazione, è un brand con una squadra, dei social media manager, addetti al marketing, e che, come si vanta sempre lei, fattura 61 milioni di euro e ha 800 mila followers.  

 

Avrà letto il pezzo? N0n credo. Avrà, al massimo, visto lo screenshot che la Cinica fa circolare. Le due righe incriminate.  Quando penso che nient’altro potrebbe succedere di peggio arriva Carlo Calenda. Rilancia prontamente un altro screenshot del mio pezzo. “Incontrala!”, scrive su Twitter.  L'Estetista Cinica “è un’imprenditrice straordinaria; non essere dismissive con lei. Sì, caro fagiano Calenda, grazie. E a parte che mi chiedo se dismissive l’hai imparato nel tuo faticoso tour delle periferie romane, ma la conosco, grazie. Premessa: anche Calenda ha appena fatto una diretta con lei. Tutti vogliono fare le dirette con lei. In generale con chi ha molti followers. Tutti noi analogici novecenteschi ormai siamo lì a piatire un contatto magico con gli influencer: come se loro, moderne divinità, semplicemente col loro tocco potessero moltiplicare la merce avariata che noi produciamo: giornali, libri, candidature politiche. Loro lo sanno, naturalmente, e ci trattano di conseguenza.

 

Tra gli aspetti più interessanti di questa storia c'è la conferma che siamo non in una improbabile dittatura del politicamente corretto ma dello screenshot.  Non solo cioè nessuno legge piu’ un articolo, soprattutto se ci vuol fare polemica sopra; ma neanche un titolo. Si leggono solo blocchetti estrapolati che possono essere usati in qualunque modo come brandelli di conversazione intercettata. Non si capisce il tono, non si capisce se uno ride o scherza. Noi tapini giornalisti eravamo convinti che già fosse grave la dittatura del pdf (quella in cui quelli che scrivono sui giornali ormai sono anche quelli che comprano i giornali, e a quel punto, in una economia circolare perfetta, si chiedono il pdf tra loro gratis). Ma adesso siamo appunto allo screenshot. Così io, nella mia ingenuità novecentesca, pensavo: dopo tutta questa storia almeno il pezzo incriminato sarà andato benissimo. “Mh, “peggio della media”. Duemiladuecento visualizzazioni. Insomma l’articolo che ha fatto indignare le meglio fagiane d’Italia non l’ha letto nessuno.

 

A proposito di screenshot, siccome conosco i miei polli anzi le mie fagiane,  vorrei sottolineare: sono gay , sono pro-Zan, di sinistra, spesso in disaccordo con le posizioni del Foglio (sono anche daltonico e forse celiaco - devo ancora ritirare le analisi, sono bresciano) – quindi secondo criteri  intersezionali me dovete lascià sta.   Ma torniamo al tema centrale, fagiane e  giornalismo. Ovviamente, tra gli insulti,  il classico “giornalaio!” è stato uno dei primi ad arrivarmi. La stessa boss delle fagiane, l’Estetista Cinica in persona, ci tiene a precisare: “tu hai usato il tuo giornale per scrivere contro di me, io lo faccio su Instagram, che è il posto dove scrivo io”. “Anche se non credo che il Foglio abbia 350 mila lettori. Mettiamola così, sto dando una mano all’editoria”. Dopo il signorile statement,  posta il messaggio di una sua follower che dice “io sono edicolante, ti assicuro che il Foglio in edicola non lo compra nessuno!”. Colpisce  la concezione che si ha di un giornale come luogo che le persone “usano” per colpire qualcuno; ancor di più quella di  “giornalaio” come massimo insulto, e però poi valorizzando i messaggi di vere, orgogliose giornalaie.

 

Un amico dice: “Devi capire. Gli influencer sono come gli stilisti di una volta, che siccome pagavano la pubblicità non tolleravano che si scrivesse in modo critico di loro. I followers sono i nuovi budget pubblicitari”. In effetti l’unica reazione simile a un articolo l’ho avuta da un famoso stilista. Dal suo staff: erano furibondi che qualcuno avesse osato criticarli, ma più che furibondi  non riuscivano a capacitarsi: cosa c’è dietro?,  chiesero. Perché proprio è ormai passata l’idea che uno scriva soltanto se c'è qualcosa dietro o davanti. E anche la Cinica: “Masneri mi aveva fatto un’intervista bellissima” (e te credo, quando gli dici che sono dei geni rinascimentali l’intervista è sempre bellissima). “Adesso devo aver urtato la sua sensibilità”.  

 

Dopo il primo giorno della mia partecipazione (gratuita) al circo dell’Estetista cinica, devastato, prendo mezzo Stilnox e dormo. Mi sveglio e la prima cosa che faccio è guardare Instagram. Il suo. Da cui apprendo che: dopo avermi cotto allo spiedo fino alle 18, dopo si è rimessa a far pubblicità alle sue creme di bellezza. Ah, lo spirito bresciano, sopravvissuto anche al liceo classico: ok la polemica ma poi  bisogna laurà! Dunque, dopo il lamento per la mancata laurea ricomincia: “Lancôme official con il suo codice Summer25”; “fondo tinta in stick e cipria doppia”… “Sapete, io raramente faccio pubblicità per brand che non siano il mio ma…”.

 

Poi, ecco che lancia (con stories fantasiose e perfette) il progetto “Bellezze da museo”, una specie di road show tra luoghi d’arte dove lei passerà col suo “carrozzone cinico”. Tre tappe tra Ancona, Taranto, Matera. Lei da quel che ho capito fa da guida ai musei per le sue fagiane. Va col suo furgoncino targato Estetista Cinica, offre gli ingressi gratis. Immagino che in cambio ne avrà visibilità. Sottolinea che “Quando devi far beneficenza non te la chiedono la laurea”. A quel punto mi sorge il dubbio d’essere stato io l’utile idiota, anzi l’utile fagiano museale nella sua campagna di marketing artistico. Dopo tutta la polemica sulla Galleria Borghese, guarda caso, lancia proprio un progetto sui musei.  Del resto lo scrive anche lei: “ringrazio Michi.Mas per l’assist involontario che mi ha fatto per lanciare questo progetto”.

 

Quindi io sono servito per lanciare meglio questa cosa. Non io coi miei followers che sono tanti quanti i passeggeri su un autobus: io come malcapitato con cui instaurare un bel flame. Ora capisco meglio la faccenda. Ecco poi un’altra illuminazione. Guia Soncini che la conosce bene a un certo punto posta su Twitter uno screenshot di una delle mie storie.

 

Parentesi: mentre vieni fatto allo spiedo in questi flame, uno degli aspetti più interessanti sono gli spettatori, quelli che osservano, divertiti o impressionati, sugli spalti del Colosseo, cosa succede nell’arena  in cui tu ti dibatti con le fiere che ti rincorrono. Ti scrive chiunque, amici e conoscenti: chi ti sostiene, chi critica il tuo avversario: la maggioranza è divertita, pensano che ti  diverta anche tu. C’è il messaggero: è stato quello/a istigarla, non sai, è nemico di quell’altra. Arrivano pizzini: non sai cosa ha fatto a me, vuoi gli screen? Anche no, grazie.

 

Tornando alla Soncini, lei posta insieme il mio screenshot, cioè diciamo la diapositiva del Colosseo, e una pagina del suo fortunato saggio “L’era della suscettibilità” (Marsilio), in un capitolo in cui tratta di come gli influencer monetizzano il lamento. “C’è un’interessante chiusura di cerchio nel fatto che molte di queste indignazioni si infiammino su Instagram, il posto dove ognuno ha qualcosa da vendere” (pag. 96). Poi prosegue: “Tutta la suscettibilità è in vendita. Una delle ultime convenzioni suscettibili è la body positivity (…). Siete grasse? Siete bellissime, ma compratevi la nostra crema, anche da grasse dovrete pur idratarvi”.

 

E poi arriva la storia più interessante, quando Soncini racconta di avere un’amica che assomiglia terribilmente alla Cinica. “viene sempre presentata come un’influencer. In realtà fa l’imprenditrice. Recentemente l’amica è stata presa in giro da un programma radiofonico dalla grana piuttosto grossa. Ha quindi passato  tre giorni a pubblicare video in cui: si diceva offesa; pretendeva le scuse del programma; pretendeva le scuse della radio; si diceva offesa in quanto donna; si diceva offesa in quanto lavoratrice; annunciava querele sostenendo che paragonarla a Belzebù non era satira ma diffamazione”.

 

Un caso che somiglia davvero molto a quello accaduto nell’ottobre 2020, quando la Cinica, alla trasmissione di Radio2, “Il ruggito del coniglio”, venne sfotticchiata. Anche lì si trattava di una faccenda di musei. I musei sono come i giornali e i libri e i deputati, sono prodotti novecenteschi in affanno che cercano di usare gli influencer per scampare all’irrilevanza. Insomma l’Estetista cinica va ai Vaticani come decine di influencer negli ultimi mesi, fa le foto di prammatica (anche quella con la carta geografica poi utilizzata per  contestarmi lo scarso know how delle valli bresciane) e quelli la prendono un po’ in giro. In particolare due battute feriscono: “Se ingaggiano ‘L’estetista cinica’ poi chiameranno anche ‘La sciampista crudele’?”. E soprattutto : “Se i Musei Vaticani che dovrebbero rappresentare il bene chiamano lei, allora Belzebù chi chiama, Voldemort?”.

 

Il problema vero è che non fanno ridere. Ma lei arma un inferno per settimane, chiede scuse pubbliche, va a Radio DJ per una puntata riparatoria. Dice che non lo fa per lei, che non ne ha bisogno, “ma per non convalidare stereotipi di questo tipo”. Di nuovo Soncini (e meno male che sono amiche) ironizza sulla diffamazione d’essere paragonate a Belzebù, “una causa a cui assisterei con gran sollucchero”. Ma nel frattempo racconta di aver chiesto all’amica di smetterla e se fosse impazzita, "mentre follower di ogni grado di notorietà le davano ragione, vai a sapere se perché suscettibili per loro conto o perché si garantivano che il loro video venisse ripostato e visto da milioni di persone”.

 

Ora capisco anche tutte quelle, fagiane e non, che hanno fatto altre stories in cui mi vituperavano molto, me e  il mio pezzo (ovviamente non letto) ma soprattutto taggavano l’Estetista cinica. Per avere più followers, e, idealmente, essere ripostate. Finale della storia (soncinesca):  “quando, settimane dopo, ne abbiamo parlato a freddo, la mia amica mi ha detto che io non capivo il mezzo: «Bisogna capire quali flame cavalcare e quali no. Io con quel flame lì ho guadagnato diecimila follower»”. “Ma quindi la suscettibilità è monetizzabile - conclude Soncini. Ma quindi non si tratta di anime fragili senza senso della priorità, si tratta semplicemente di gente con un certo qual fiuto per lo Zeitgeist, che ha intuito cosa voglia il pubblico d’oggidì”.

 

A quel punto mi sento ancor più fagiano alla fiamma. Fagiano allo spiedo rosolato per creare una variante, una bella indignazione per sollevare dal torpore il pubblico fagianesco (e non) del reality che questo personaggio deve sostenere sette giorni alla settimana, oltre dodici ore al giorno. Senza attori o comparse. Come se fosse una soap in cui il 90 per cento sono solo interruzioni pubblicitarie e product placement, e un cast fisso poverissimo: dunque benvenute comparse, gratuite, magari da colpevolizzare un po’, nel frattempo randellandole.

 

Mi metto a studiare. Scopro che è pieno di saggi e articoli scientifici che ti spiegano (ma non ci voleva uno scienziato) che uno dei format che tira di più su Instagram è l’indignazione. “In tutto il mondo, più di un miliardo di persone trascorrono almeno un'ora al giorno sui social media e l'indignazione morale è di gran moda online. Negli ultimi anni, la vergogna online virale è costata milioni alle aziende, alle elezioni dei candidati e ai singoli individui”, scrive Molly J. Crockett, di Yale. “Nella vita vera, la punizione moralistica porta un rischio di ritorsione. Ma i social network online limitano questo rischio. Consentono alle persone di rifugiarsi in eco-chambers con un pubblico solidale. La possibilità di contraccolpo è bassa quando trasmetti solo disapprovazione morale ad altri che la pensano allo stesso modo. Inoltre, consente alle persone di nascondersi in mezzo alla folla. Far vergognare uno sconosciuto in una strada deserta è molto più rischioso che unirsi a una folla di migliaia di persone su Twitter”.

 

Però ci vorrebbe un saggio specifico sulla Cinica, che genialmente ti punisce moralmente perchè "tu hai potuto studiare, e lei no"; e allo stesso tempo ti zittisce perché "fatturo 61 milioni, do lavoro a 60".  Non solo Evita Peron, torna, tutto è perdonato.  Ma anche, forse, rivalutare Wanna Marchi. Che almeno non ti faceva sentire in colpa. Potremmo chiamarlo vittimismo performativo.  Estetista Cinica mentre ti martella con le sue armate è anche una fragile donna, perfino senza laurea. "Su Instagram siamo tutti vittime. Forse il vittimismo è l’unica cosa che ci distingue da un brand a livello di comunicazione", ha scritto qualche tempo fa Irene Graziosi in un interessante intervento su "Quando l'attivismo digitale diventa performativo".  "I brand non sono vittime e vanno sempre guardati con sospetto. Quello che fanno i brand è sostenere le vittime cercando tramite queste ultime di vendersi alle community". 

 

Ma per quanto potrà andare avanti così l’Instagram? Un luogo totalmente sregolato in cui il sangue è il token gratuito più pregiato per portare a casa il palinsesto giornaliero. Almeno nelle risse televisive uno lo sa, va lì, ti pagano, o ti danno almeno il taxi. Qui invece vieni randellato per fare spettacolo direttamente da casa tua. Il parallelo con le tv mi sembra interessante. Alla fine uno quando pensa agli influencer pensa alla Ferragni, ma quella è Canale 5, la nave ammiraglia. Prima qualità. Sotto ci sono i derivati, minuscole  televisioni private senza regole, come negli anni Settanta. Come Canale 5  nasceva dal citofono di TeleMilano, un canale in più nei sistemi di telesorveglianza, che non si sapeva con quali contenuti riempire. Oggi, pare di capire, devi sperare di non diventare il riempitivo di uno di questi simpatici intrattenitori.

 

Il parallelo con la tv continua a rimanermi in testa. Continui a guardare. Non riesci a staccarti. Io per giorni non ho pensato ad altro. E se dà dipendenza alle vittime, chissà ai  carnefici. Una mia amica mi dice che lei con gli influencer che conosce parla solo per telefono, perché se vede le loro storie le sembrano degli estranei, non li riconosce più. Come i televisivi. Solo che dai televisivi te l’aspetti, invece l’influencer hai sempre quell’ingenuità di pensare che siano persone vere.

 

Come salvarsi? Staccare tutto? Dopo le bastonate a cui comincio a rispondere - "scusa Cinica, ma tu come ti regoli? Fatturi al mattino e ti lamenti  il pomeriggio? Cosa consiglia il commercialista?", dopo che segnalo anche la incredibile coincidenza che subito dopo le randellate museali a me sia arrivato il suo encomiabile progetto sui musei, lei sospende le ostilità e mi manda dei messaggi privati su Instagram. “Finiamola con questa storia che sta diventando patetica”, dice.  E poi, tra il minaccioso e lo sbrigativo: “dai che qualche follower te l’ho fatto guadagnare".  E ancora: “ho anche il dubbio che questa polemica l’hai montata apposta tu per guadagnarne qualcuno”.

 

Poi, visto che non rispondo - non rispondo perché sono terrorizzato, e poi perché dovrei rispondere a una che mi ha bullizzato per ore? Lei non apprezza: "vedo che è impossibile parlarne da persone normali, cioè non sui social". Cioè, vorrebbe instaurare un simpatico rapportino. Ma che si può fare? Ma sarà colpa del Covid? Non sembrava così il mondo fino a qualche mese fa. Penso a mio fratello Giovanni, che sta senza social. Ma ho l'impressione che noi possiamo anche non occuparci di Instagram, ma Instagram continuerà ad occuparsi di noi. “Internet è già diventato l'organo centrale della vita contemporanea” scrive Jia Tolentino nel primo capitolo di “Trick Mirror”. “Ha già ricablato il cervello dei suoi utenti, ha già costruito un ecosistema che funziona sfruttando l'attenzione e monetizzando il sé. Anche se eviti Internet completamente Internet non eviterà te: noi viviamo nel mondo che questa rete ha creato, un mondo in cui l'individualità è diventata l'ultima risorsa naturale del capitalismo”.  

 

Siamo tutti compromessi? Un amico cinico (ma non come l'Estetista): "in effetti ti ha fatto guadagnare un po' di   followers. Buono”, mi fa. Ma io non ho niente da offrire a questi follower. Non ho prodotti da vendere, non credo corrano in libreria a comprare i miei libri. Ma poi i followers  uno li debba intrattenere, questa storia l'ha dimostrato, sennò se ne vanno: ma io e questi nuovi followers, che ci dobbiamo dire? Io avrei anche da fare. Devo andare a caccia anch'io di boomer da randellare? 

 

Il giorno dopo ancora,  la Cinica dice che è giù di morale. Una fagiana le chiede: “sarà mica per quel quel “giornalista” (con le virgolette). Lei dice di no. Meno male. Non vorrei averti ferito, Cinica. Un’altra fagiana le chiede: “tu e Masneri fate la pace. Il Foglio fa cultura. Tu pure”. Lei: “Gli ho scritto in privato, ma non mi ha risposto”.  Ti rispondo adesso: Cinica, mi dispiace se ti ho ferito, davvero. Giuro che non sbaglierò più il nome della tua valle. Però tu almeno non farmi sentire in colpa. E chiudiamola qua.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).