Addio a Gian Piero Dell'Acqua
Ordinava e organizzava, impartiva e spartiva, progettava e costruiva, assegnava e soprattutto segnava gli errori, spesso stracciava e cestinava. Il ricordo di un maestro di giornalismo
La notte fra sabato e domenica è morto Gian Piero Dell’Acqua. Moltissimo di quel pochissimo di giornalismo che ho imparato è merito suo.
Era il 1977. Me lo presentò Fabio Treves, amico fotografo e armonicista blues. Milano, via Turati, civico 3, redazione milanese della ‘Repubblica’. Lo stesso portone del Milan, ma il Milan a sinistra e la ‘Repubblica’ a destra. Piano rialzato. Di che cosa ti occupi? Rugby, risposi. Sport, allargai. Tutto, quando capii che né lo sport, né tantomeno il rugby, avrebbero mai trovato spazio nelle pagine locali. Fu così che cominciai a spaziare dalla moda alla cucina, emigrare dalle fiere ai mercati, traslocare dai concerti alle osterie, frequentare conferenze e tradurre comunicati, infilarmi in riunioni di scout e intrufolarmi in saloni di oratori.
Dell’Acqua - aveva 47 anni, ne dimostrava di più o forse a noi sembrava più vecchio di quello che era - mi ricordava il Walter Matthau direttore dello “Chicago Examiner” di “Prima pagina”: secco, sarcastico, tagliente, definitivo. Un “hard-boiled” milanese, anche se comasco di origine. Dirigeva le pagine milanesi con un paio di giovani redattori (Gabriele Porro più, assunto come poligrafico, Fabrizio Ravelli per i tamburini di cinema e teatri compilati grazie ai quotidiani bollettini dell’Agis e alle indispensabili recensioni del Centro cattolico cinematografico, fino alla promozione come praticante) e un esercito di collaboratori, tutti specializzati se non specializzatissimi. Musica, per esempio: Giacomo Pellicciotti per il jazz, Enzo Gentile per il rock, Angelo Foletto per la classica, lo stesso Treves per il blues, e poi ne stimolava la competizione (e ne scatenava le gelosie) creando continue alternative. Ordinava e organizzava, impartiva e spartiva, progettava e costruiva, assegnava e soprattutto segnava gli errori, spesso stracciava e cestinava. Ruggendo, ringhiando, guaendo, barrendo. Brontolando, mugugnando, urlando, esclamando. E fumando. Una Gitanes senza filtro via l’altra.
Però insegnava. Insegnava il mestiere, non la professione. Insegnava l’artigianato, non l’arte. Insegnava la bassa manovalanza, non l’alto livello o l’alta qualità o altre alte fesserie. Insegnava a scrivere, soprattutto a stringere, tagliare e asciugare. La notizia in testa, d’accordo. Poi la polpa, la ciccia, cioè la roba buona, concreta, fatta di virgolettati, informazioni, cifre, indirizzi. Niente avverbi e aggettivi, niente luoghi comuni e frasi fatte. Niente “credo che”, “ricordo che”, “penso che”, “dico che”. Guai a “praticamente” e “in pratica”, a “indubbiamente” e “senza dubbio”, a “purtroppo” e “infatti”. Pezzi di 40 righe venivano segati a 20, ridotti a 10, decimati a quattro. Articolesse venivano appallottolate e lanciate verso un cestino (probabile che il tiro da tre punti del basket fosse stato introdotto nella speranza di perfezionarne la tecnica e migliorarne la mira). Il pezzo ideale era un concentrato straripante di informazioni. In 20 righe, predicava, ci può stare tutto. In 10, esagerava, ci può stare ancora di più. E aveva ragione. Lui passava i pezzi – in gergo, significa leggerli e correggerli – preferibilmente in presenza dell’autore: una forca caudina pubblica, spesso deprimente, avvilente o umiliante, che provocava sudorazione, a volte lacrimazione, spesso una lunga sparizione dalla redazione, almeno fino a trovare il coraggio (il coraggio della disperazione) per ripresentarsi e riprovarci. A me accadde più volte. E quando finalmente riapparivo davanti a lui, mi accoglieva chiedendomi dove fossi andato in vacanza a spendere i soldi dei miei genitori. Impossibile replicare.
Dell’Acqua mi inviava fuori dalle ex Varesine a intervistare – nomi, cognomi, tre risposte asciutte a tre domande secche – i sorcini a un concerto di Renato Zero, oppure mi teneva incollato a un telefono destinato alle pubbliche informazioni finché non avessi ottenuto risposta (e il giorno dopo, sul giornale, riportava scrupolosamente e provocatoriamente i tempi di attesa), oppure mi spediva a scrivere di una mostra allestita in un ospizio. Il meglio d’estate, quando per l’assenza della maggior parte dei collaboratori si riusciva a scrivere un pezzo ogni giorno, o quasi, dallo spettacolo di un clown a Sant’Eustorgio a una regata di canoe all’Idroscalo, da un’inchiesta sulle chiusure estive delle edicole a una rassegna dei migliori cocomerai nella cerchia dei Navigli. Si sgambava, si pedalava, si scammellava. Uomini e donne da strada, da marciapiede. Poi si scriveva. E si firmava. La firma alla fine del pezzo, fra parentesi. Oppure la sigla, sempre fra parentesi, all’inizio del pezzo, quando il pezzo era troppo breve per meritare una firma o quando in pagina c’era già un altro pezzo. Il pezzo – il mio unico pezzo – lodato pubblicamente fu una quindicina di righe di resoconto di un convegno indetto da una scuola alberghiera.
Dell’Acqua non aveva preclusioni: chiunque avesse una buona idea poteva, se non doveva, scrivere un pezzo. Ma non tutti sapevano, e non tutti dovevano, scriverlo. C’erano, fra le centinaia di collaboratori più o meno saltuari e occasionali, i colti e gli ignoranti, i dotti e gli analfabeti, i timidi e gli spavaldi, i fuoriclasse e i negati, i professori e gli sciroccati, i figli di nessuno e anche i figli di giornalisti. Lui li trattava tutti allo stesso modo: mordendoli, azzannandoli, triturandoli, perfino insultandoli. C’erano quelli che sarebbero diventati direttori, a cominciare da Carlo Verdelli (alla “Gazzetta dello Sport” e alla stessa “Repubblica”). Ma tutti quelli passati da lui, o meglio, sotto di lui, hanno imparato il mestiere. E li riconosci ancora da come si indignano davanti a uno sbrodolamento, da come reagiscono all’aria fritta, da come patiscono gli anglicismi, da come si inalberano davanti agli errori perpetuati per negligenza, sciatteria, pressapochismo, ignoranza. Da come tuonano adesso come tuonava allora Dell’Acqua.
Dell’Acqua amava il cinema, dei film conosceva le battute, dei registi il curriculum, degli attori le espressioni. Guidava le Alfa Romeo e tifava l’Inter. Se solo fosse stato possibile, avrebbe aderito, abitato, adottato la Spagna, anzi, i Paesi Baschi. Storia, geografia, cucina, tradizioni, ovviamente (questo “ovviamente” me lo avrebbe amputato al volo) cinema. Le sue vacanze, i suoi viaggi – su un’Alfa Romeo – finivano là, tra la festa di San Firmino a Pamplona e i raid nei bar di Vitoria e Donostia. Brusco, burbero, lunatico, Gian Piero aveva slanci di tenerezza e attenzione di grande nobiltà. Una volta, a Ravelli, regalò alcune teste d’aglio basco. Davvero speciale, secondo Fabrizio. A mangiare e bere – bene – ci teneva sempre. E sapeva cucinare con passione e competenza: i suoi risottini erano degni di un ristorante stellato.
Le nostre strade si divisero, l’amicizia rimase. Un giorno lo invitai a pranzo a casa. A casa dei miei genitori. Mia madre esibì i suoi classici, ereditati da mia nonna mantovana. Dell’Acqua fu conquistato non solo dai piatti di mia madre, ma anche da mia madre. E mio padre, un po’, s’ingelosì. Mia madre, di questo sussulto di gelosia, a Dell’Acqua fu grata. E da allora mi avrebbe sempre chiesto sue notizie.
Ma le notizie erano quelle che erano. Gian Piero, in pensione, studiava i suoi due o tre quotidiani, ascoltava musica, guardava film, andava al cinema, divorava romanzi e saggi, coccolava un paio di gatti, continuava a fumare e cucinare, a indignarsi e brontolare. Il suo caratteraccio non lo aiutava granché a tenere relazioni né a riscaldare amicizie. Si sottraeva ai premi, sfuggiva agli inviti, dribblava i ritrovi, evitava le riunioni. Cedeva soltanto a qualche visita, meglio se accompagnata da un risottino, e da una peperonata, e da una macedonia. E conclusa, temporaneamente, da una Gitanes.
Finché l’ictus. Il Fatebenefratelli. Il cuore stremato dalle arrabbiature e dalle Gitanes. Aveva 91 anni. La vittoria ai rigori dell’Italia sulla perfida Albione gli avrebbe regalato, a lui come al resto del popolo basco, un sorriso. Per poco non ce l’ha fatta. Peccato.