Viaggio a Voghera bang-bang, dove Lega e sinistra annaspano nella propaganda
L’assessore leghista che ha ucciso il marocchino ha tramortito anche la città. Destra e sinistra nel pantano della propaganda. E un assessore promette: “Oggi sì che spariamo”
Voghera. Qui alla trattoria “Da Sofia”, la questione neppure si pone. La disputa la stronca infatti sul nascere uno dei muratori mentre gira il caffè corretto alla sambuca, sulla cinquantina andante, col tono risoluto di chi non ammette repliche: “Io se incontro Adriatici gli stringo la mano, altroché”. Tutti d’accordo, tutti annuenti (“agli stranieri devi farti vedere che non cedi”, conferma un altro, “sennò ti schiacciano finché non sentono l’odore del sangue”). Ma qui, in questo ristorante a un chilometro dal luogo del delitto, dal capo opposto di Piazza Meardi lungo quel Viale Rosselli che resta tuttora la via di fuga per chi da Voghera deve raggiungere Genova passando per Tortona (il bar del misfatto non a caso si chiama “Ligure”), più che a quel che è stato, si guarda con ansia a quel che verrà.
“Domani vogliono un altro Carlo Giuliani, vogliono”, dice un altro avventore. E subito la frase richiama l’attenzione della proprietaria del locale, Francesca Miracca, assessore al commercio della giunta comunale, leghista a ventiquattro carati. “È proprio così. Domani spariamo davvero, mi sa: assoldo i miei operai e scendiamo noi, in piazza”, dice, mentre si muove agile tra i tavoli di plastica senza pretese e senza tovaglie, servendo i suoi clienti, per lo più manovali coi pantaloni inzaccherati e ragazzotti stanchi e accaldati nelle loro tute arancioni catarifrangenti (menù espresso letto all’impronta dal block notes di fortuna: primo, secondo, acqua e caffè a 11 euro, spaghetti al sugo di pesce commendevoli). Lo dice sorridendo, lo dice con leggerezza, come non fosse da prendere sul serio. “Domani spariamo davvero”.
Domani, che poi sarebbe oggi, sabato, qui a Voghera, capoluogo decadente dell’Oltrepò pavese, è in programma una manifestazione che in effetti si fa fatica a descrivere – et pour cause – ma che in sostanza dovrebbe essere un corteo in memoria di Youns El Boussettaoui, il 39enne marocchine ucciso da un colpo esploso da Massimo Adriatici, assessore alla Sicurezza, leghista pure lui. In realtà doveva essere una “camminata antirazzista”, s’era detto inizialmente, provvedendo subito a riconvertire l’oggetto del presidio indetto dal Pd locale per discutere di Recovery plan e di come ricostruire il sistema sanitario lombardo. Solo che poi da più di qualche associazione che voleva aderire s’è fatto notare – e questo dice un po’ dell’aria che tira – che parlare di razzismo era troppo vago e troppo divisivo al tempo stesso: rischiava di scoraggiare la partecipazione di chi non fosse proprio di sinistra. E così, alla fine, in nome dell’ecumenismo s’è optato per un nuovo titolo: “Giustizia per Musta: la sicurezza è per tutt*” – mantenendo come unico vezzo identitario quello dell’asterisco, con uno zelo lessicale che in effetti è stato un poco miope, perché ha finito per indispettire coloro per cui anzitutto si decide di manifestare, se è vero che i conoscenti più diretti di El Boussettaoui quel soprannome che qui a Voghera si usava per il loro amico lo considerano a torto o a ragione una specie di nomignolo spregiativo, come s’impara presto a furia di chiedere nel loro giro se qualcuno si fosse imbattuto di recente in Musta e sentendosi subito rispondere: “Youns, non Musta”.
Qui “Da Sofia”, comunque, non si sta certo a disquisire su queste bazzecole. L’assessore-ostessa, piuttosto, è costretta a ricevere le lamentazioni dei commercianti della città che la chiamano per chiederle se sia meglio chiudere la saracinesca, in vista della manifestazione. “Figuriamoci, con le amministrative di Milano alle porte, Sala ne manderà giù a migliaia a far casino”. E lì, dietro al bancone, mentre fa i caffè e lava i bicchieri, nel frattempo amministra il suo spicchio di città. “Parlerò col sindaco, sì, tranquillo, anche se bisogna capire cosa farà ora che ha preso le deleghe di Adriatici”. Altro caffè fatto, altra telefonata. “Ora sento il capo dei vigili, Algeri, anche se lo sai com’è questo, un po’ così, non sta sul pezzo. Non è come Calcaterra”. Calcaterra, di nome Giuseppe, del resto non c’è più. Ha chiesto il trasferimento a Vigevano, con gran scorno dei locali. Ufficialmente: per motivi di famiglia. “Ma la verità è un’altra”, mi spiega Ilaria Balduzzi, consigliera comunale del Pd. La verità, pare, è che Calcaterra ha salutato tutti proprio in conflitto con l’assessore Adriatici, che subito dopo l’inizio del suo mandato aveva preso a convocare da solo tavoli per la pubblica sicurezza, manco fosse il prefetto, andava in giro a cazziare i vigili, insomma aveva già velleità da giustiziere della notte, forse nostalgico del suo passato da sovrintendente di Polizia. Al che Calcaterra avrebbe mollato la guida della polizia locale.
Che comunque non siano solo gli avventori della trattoria dell’assessore Miracca, a giustificare e perfino ad apprezzare l’avventatezza omicida di Adriatici, lo si capisce anche nell’epicentro della tragedia. Piazza Meardi, che è una rotonda appena fuori la “pera” che delimita la ztl di Voghera, raccoglie nei pochi metri quadrati tutte le contraddizioni di una città tramortita, che teme già di finire impantanata in un nuovo stereotipo. (“Dopo la casalinga, ci mancava il Far West”, mi dirà un barista di Via Garibaldi, confermando che questa cosa della casalinga qui proprio non è andata giù. “Ma Voghera è anche la città di Alfio Maserati, ed è la città di Valentino, lo stilista. Perché voi giornalisti non lo scrivete?”). Appesi alla balaustra dello spiazzo davanti al bar “Ligure”, fiori e biglietti stanno a testimoniare di una reazione accorata da parte di molti vogheresi.
Però nel frattempo ci sono anche gli sguardi torvi di altri passanti, le mezze frasi lasciate cadere appunto perché qualcuno senta (“Tutto ’sto spettacolo, adesso. Era meglio quando s’ammazzavano tra di loro”). Del resto, dall’altra parte della strada, la scena pare quasi apparecchiata all’occasione. Sono le 18 di giovedì, e un uomo nero senza maglietta s’agita e schiamazza. Davanti a lui stanno tre vigili, a debita distanza, che tentano di calmarlo: lui non si calma affatto, fa anzi per entrare nella fontana circolare che è di fronte al bar “Cervinia”, poi ci ripensa e torna a sedersi sulla panchina, sempre berciando. Ci vorrà un po’ per convincerlo a rivestirsi e ad allontanarsi. “Era un amico di Musta”, mi dicono.
Sta di fatto che dietro di noi, ai tavoli del “Ligure”, un gruppo di ragazzi albanesi non è affatto incline alla pietà. La Balduzzi, combattiva consigliera del Pd, ha il suo bel daffare per convincerli che no, andare in giro con la pistola carica non è un modo per risolvere le cose. Ma loro si lasciano persuadere a fatica. “Solita cattiveria dei penultimi verso chi sta un gradino più giù nella scala dell’integrazione”, azzardo io. Ma in realtà loro sono mossi da ben più pragmatiche ragioni: “Temono ora che tutti gli stranieri residenti a Voghera, che nel complesso sono quasi quattromila su un totale di quarantamila abitanti, vengano discriminati”. Sa anche lei, comunque, che il clima è pesante. “Non sono pochi quelli che difendono Adriatici, che dicono che ha fatto bene”, ci dice la Balduzzi.
“E sì che Voghera non era una città di destra”, racconta Giuseppe Villani, per tutti Pep, consigliere regionale del Pd. Guido Piovene gli dà ragione: “L’Oltrepò, poco fertile ad eccezione delle colline a vigneto, non ha favorito il formarsi delle grandi aziende agricole”, annota nel suo Viaggio in Italia. “Le proprietà sono piccole e minime, di conduzione familiare. Vi predomina il contadino-operaio, che tiene il campo per il proprio sostentamento, ma va a lavorare in fabbrica. La tinta politica è rossa, gli antagonismi sono accesi”. Era il 1953. Poi, va detto, qualcosa in effetti è cambiato. Non nell’indole dei vogheresi, sempre poco inclini alla collaborazione. “Ma comunque è stata una città che ha conosciuto un discreto benessere”, spiega Paolo Affronti, consigliere comunale tra il 1970 e il 2010, due volte sindaco e una volta deputato (ex Dc, poi Popolare), che è un po’ grande vecchio della politica locale. Perché Voghera è stata a lungo crocevia obbligato, del nordovest: proprio all’intersezione dell’asse che da Genova porta a Milano e di quello che da Torino corre verso Piacenza. Qui Affronti trattiene a stento un ghigno d’orgoglio democristiano: “Quando ero deputato introdussi la fermata del pendolino, qui a Voghera: in quattro ore si stava a Roma”. Curva Fanfani nell’Oltrepò. Poi Affronti non ha conservato il seggio alla Camera, e soprattutto l’alta velocità è arrivata davvero. Per cui per arrivare a Voghera bisogna cambiare a Rogoredo, poi tornare indietro in regionale passando per Pavia. Non proprio comodissimo.
Anche perché, verrebbe da dire, che si viene a fare a Voghera? Il glorioso distretto della plastica – di cui la Piberplast resta un valido testimone – non ha retto alla competizione internazionale, ed è entrato in sofferenza (e qui bisognerebbe intercettare le facce di quelli del Pd, quando gli si chiede come hanno reagito da queste parti alla campagna di sinistra per la “plastic tax”, due anni fa). E poi la colla Coccoina, e poi la Zonca lampadari (che a un certo punto s’era lanciata a finanziare anche una squadra di ciclismo che portò a qualche bel trionfo di Motta e Bitossi): tutta epica indusitriale local che va stingendo verso la nostalgia, il rimpianto. Al punto che si finisce, qui in terra padana, perfino a benedire l’arrivo del salvatore del sud, rallegrandosi perché finalmente Massimo Caputi, magnate dell’immobiliare e gran patron delle terme di Saturnia, si è venuto a comprare gli sfioriti stabilimenti di Salice.
“Ed è certo anche in questo declino economico che Voghera ha svoltato a destra, cercando una forma di protezione dal nuovo, dall’incognito, che vale per il lavoro come vale per l’immigrazione”, dice Pep Villani. E così, l’avvento della Seconda Repubblica a Voghera è segnato dall’arrivo al governo della Lega e di Forza Italia al posto del Pci prima e poi di una Dc che guardava quasi sempre ai socialisti. La retorica della sicurezza come arma di difesa dalla crisi della provincia. La rabbia come risposta alla frustrazione, la paura come nuovo impensabile collante sociale (al bar “Roma”, di fronte alla stazione, la cassiera si lamenta con la signora che estrae il bancomat per pagare una bottiglietta d’acqua. Piccolo battibecco, momenti di tensione, poi alla fine la cliente trova la spiegazione giusta: “È che a venire qui coi contanti, si finisce per farseli rubare”. La cassiera d’improvviso sorride, pacificata: “Ha ragione. Carta o bancomat, m’ha detto?”).
Non si spiega altrimenti, del resto, questa percezione del pericolo che, per chi arriva a Voghera da Roma o da Milano, ma forse perfino da Pisa o Perugia, appare alquanto squilibrata. Perché sì, davvero nei giardinetti davanti alla stazione, sotto la statua a Garibaldi, la sera si vedono gruppi di africani con le buste piene di Peroni. Davvero per i vicoli che sbucano su Piazza San Bovo, a due passi dal brulichio del Duomo, s’incrociano un paio di omaccioni caracollanti, probabilmente fatti. Ma qual è la città in cui non ci siano, passata una certa ora, le stradine da evitare, gli angoli bui da cui tenersi alla larga? Davvero ha senso di esistere questa pretesa di lindore svizzero, di idillica rimozione del disagio, del pericolo?
A giudizio della Lega, evidentemente sì. Elena Lucchini, caparbia deputata del Carroccio, qui in città è descritta un po’ come la sindaca ombra, quella vera essendo invero assai evanescente (ma ci torniamo). Lei si schermisce, quando se lo sente riferire. E quando le chiediamo se ha voglia di dirci qualcosa, sul fattaccio di Piazza Meardi, preferisce evitare: “Sono a Roma fino a venerdì sera, ho gestito tutti i lavori sul dl ‘Semplificazioni’”. Ma l’ultima campagna elettorale l’ha condotta in prima persona cannoneggiando il sindaco uscente Carlo Barbieri, berlusconiano moderato, per lo scarso impegno sulla sicurezza. “Infatti è quello uno dei temi principali su cui hanno vinto le elezioni, e poi eccoci come stiamo”, sorride amaro Cristian Romaniello, deputato locale eletto nel 2018 col M5s e poi finito nel Misto. Lo dice ammiccando in alto, da qualche parte nel cielo davanti al bar “Ligure”: “Stiamo con la videocamera di sorveglianza che a quanto pare non ha registrato – dice un passante che lo sente parlare, e lo anticipa – perché era fuori uso, per cui le uniche immagini della colluttazione tra Adriatici e Musta le abbiamo dal circuito di sicurezza di una banca dall’altro lato della strada”. Romaniello ci pensa, poi annuisce: “Produce più sicurezza una telecamera attiva e pulita che persone non incaricate alle operazioni di polizia con una pistola carica in mano. Ma non intendo al momento esprimere giudizi impietosi”.
Lo dice perché in effetti, in queste ore, la richiesta di dimissioni sta montando a sinistra. Del resto era già nell’aria prima della faccenda, per via dell’esito apparentemente imminente di un’indagine che coinvolge proprio la Miracca, l’assessore-ostessa, per una presunta faccenda di voto di scambio. L’omicidio di Musta ha fatto il resto. Perfino dal centrodestra, sponda Forza Italia, iniziano a diffondersi le voci di perplessità sull’operato della giunta: specie se davvero si dovesse confermare che Adriatici è uscito di casa, come altre volte, con lo scopo preciso di andare a battere quella piazza malfamata, forse sollecitato dalla richiesta del gestore del bar “Cervinia”. La sindaca poi non è parsa granché reattiva. Paola Garlaschelli era stato il volto umano, del leghismo d’Oltrepò. Presidente dell’ordine dei commercialisti, è stata un po’ il prototipo di quel profilo civico che poi è stato tanto sdoganato da Matteo Salvini nelle amministrative. Ha vinto agilmente nell’ottobre scorso. Poi, sembra, si è persa nel gioco degli specchi leghista. “Succube della Lucchini”, dicono dal Pd. “Ma succube pure di Ciocca”, dicono nel M5s, parlando dell’altro eroe del trucismo locale, quell’Angelo Ciocca campione di preferenze alle ultime europee che s’è reso celebre nell’ottobre del 2018 per aver imbrattato con la sua scarpa i documenti dell’allora commissario Pierre Moscovici.
Quanto a Musta, la sua pare più una storia di disagio psichico estremo, che non di delinquenza. “Certo che lo conoscevamo, sono almeno due anni che gravitava tra Voghera e dintorni”. Elena Zotti parla con la precisione di chi ha cognizione di causa, dal suo osservatorio tristemente privilegiato di Via Balladore, proprio a due passi dai famigerati anfratti tra la stazione e viale Montebello. E’ lei una delle coordinatrici del Centro Baraonde, uno dei sei centri a bassa soglia della Lombardia. “A bassa soglia – ci spiega – significa che un po’ chiunque può avvicinarsi a noi: per chiedere un caffè, per togliersi per qualche ora la maschera della strada. E noi, che siamo collegati con la rete dei servizi sociali del comune, avviamo poi dei percorsi di assistenza”. Anche Musta era arrivato qui un per caso, come tutti. “E’ stato accettato e ha accettato le regole dentro. Trattato con rispetto, ha dato rispetto”. (E qui occorre una piccola parentesi. Perché, nei due giorni di chiacchiere per Voghera, anche su questa le testimonianze che si trovano sono estremamente polarizzate. C’è chi racconta di molestie e atti osceni, di defecazioni davanti ai bar e di minacce. E chi descrive El Boussettaoui come uno sbandato miserando. Alla gelateria Britz, sotto il Duomo, dove la mozione di condanna verso Adriatici è assolutamente maggioritaria, in parecchi ricordano di quanto si riusciva ad accontentarlo con un cono e due palline, che talvolta lui poi spiaccicava sui tombini della piazza). Qui al Baraonde, l’ultima volta lo hanno visto due settimane fa. “Si è sdraiato a terra e ha chiesto alla nostra operatrice di aiutarlo: ‘La mia testa non ce la fa più’, ripeteva”. Pericoloso? “Non una persona facile da gestire, certo. Aveva una grave dipendenza da alcool, che di certo col lockdown s’è aggravata”, dice Elena Zotti. E la fermezza con cui parla mi spiazza. “Sì, la pandemia è stata un disastro, sul fronte della cura del disagio psichico”. I dormitori chiusi per mesi, i posti letto revocati per via delle misure di sicurezza, le psicologhe costrette a ricorrere ai colloqui telefonici o a WhatsApp. Percorsi interrotti, abortiti. Gente dispersa.
E dire che Voghera, una certa confidenza col trattamento del disagio psichico dovrebbe avercela. Perché, se è vero che il refrain sulla casalinga è mal sopportato, ben più serenamente da queste parti si parla della città delle tre “P”. I peperoni, specie la qualità autoctona scomparsa in verità a inizio Novecento e poi recuperata dall’istituto agrario Gallini, eccellenza locale. Le prostitute, per via della vecchia tradizione di caserme e militari (“Voghera fu sempre sede di reggimenti di cavalleria piemontese”, ricordava Arbasino) che se le andavano a scegliere perfino in vetrina, in quella piccola Amsterdam pavese che era via Mazza Dorino. E, appunto, i pazzi. Eredità, tra gli altri, di Cesare Lombroso, nel senso che fu lui uno dei promotori della fondazione del manicomio cittadino nel 1876, uno dei più grandi di tutt’Italia, e ancora lì presente poco oltre il Castello Visconteo, anche se chiuso del tutto a ridosso del 2000 e ormai fatiscente.
Elena Zotti sorride, davanti alla mia vacuità. “La verità è che servirebbe un sistema coordinato, un progetto integrato che miri a recuperare davvero queste persone, o quantomeno ad assisterle anziché additarle semplicemente come problemi”. E invece? “E invece troppo spesso mi pare si preferisca ricorrere a interventi estemporanei, come un tso, o a ordinanze un po’ ridicole”.
Non dice altro. Ma l’allusione diventa chiara poche ore dopo. Perché la sera di giovedì, sui tavoli all’aperto di un bar di Piazza Duomo, il gruppo locale del M5s di Voghera s’è riunito per una sorta di assemblea. Dieci uomini tra i trenta e i cinquanta, a occhio, che discutono accanitamente. Sabato c’è la manifestazione. Che fare? “Se non partecipiamo, ci diranno che ammicchiamo alla Lega”, c’è chi osserva. E però Antonio Marfi, consigliere comunale e riferimento della comunità grillina, predica cautela. “Io non vorrei neppure passare per uno che svilisce le paure legittime di chi in certe strade la sera non può passare”. Insomma, stare nel mezzo, provare a pescare da entrambi i fronti, e quindi forse da nessuno. Ma la discussione scivola inevitabilmente sull’assessore Adriatici, da alcuni ribattezzato “Serpico”. In parecchi sono convinti che il problema della sicurezza lui non c’abbia neppure provato, a risolverlo davvero. Che non gli convenga. “Noi non eravamo pregiudizialmente contrari a questa amministrazione”, mi spiega Marfi. “Anzi, appena insediatosi, proponemmo ad Adriatici di collaborare, di convocare un tavolo con tutte le autorità preposte alla sicurezza, fare un monitoraggio sui reati più diffusi. Lui invece per prima cosa ha tolto due panchine in Piazza San Bovo, uno dei centri dello sfascio. Poi ha dato il Daspo a una clochard bolognese, trentasettenne, che coi suoi due cani chiedeva l’elemosina per le vie del centro. Quindi, una settimana fa, l’ordinanza per vietare la vendita di alcolici refrigerati”. Eccola, allora, la conclusione a cui arriva un amico di Marfi: “C’è che se davvero risolvesse il problema, su cosa poi chiederebbe i voti, la Lega?”.
E certo, esposta così, alla terza birra, la congettura ha un che di complottista. Però il tassista che mi porta in hotel, appena lo sollecito sul tema, mi inchioda al sedile con una frase raggelante. “Adriatici? Sparare a quel marocchino è stata la prima cosa buona che ha fatto da quando è assessore”.