La storia
Agosto 2021, la donna che vive in una cabina telefonica nell'indifferenza di Roma
Le urla, le faccende quotidiane, la dignità tra la sofferenza. Una storia
All'incrocio del potere economico italiano, tra via Goito e via XX Settembre, abita da mesi una donna in meno di un metro quadrato. Una storia di noncuranza e sofferenza nella città che corre e si volta altrove
Vive in una cabina telefonica. Perché sa che nessuno le entrerà in casa, nemmeno per sbaglio. Il più banale dei non luoghi del Novecento è abitato da una donna che si trascina in un lungo presente. Da tre mesi – pioggia, solleone, vittoria degli Europei, oro nei cento metri alle Olimpiadi – sta lì. Occupa solo un lato dei tre di cui è composta la cabina vetrata senza porte. E’ invisibile. Nonostante abbia deciso di mettere le tende in via XX Settembre, all’incrocio di via Goito, dove passa l’economia italiana, tra ministero e Cassa depositi e prestiti.
E’ una donna di quarant’anni, sembra. Si sa da radio-quartiere, e si vede, che dovrebbe venire dall’Africa. Ma chissà poi che giri avrà fatto prima di piazzarsi qui. Ha i capelli rasati. E si cura. Sì, ci tiene. Ed è un paradosso, certo, nell’antologia delle anime perse che vivono per strada nella capitale.
L’altro ingresso della sua casa lo ha adibito a ripostiglio dove vi conserva i panni e le taniche di acqua che va a riempire a una fontanella poco distante. Vuole lasciare il meno possibile sguarnita la sua tana con i cartoni, le buste, una coperta, un cuscino.Quasi tutti i giorni si mette a fare il bucato. Che poi stende sulla recinzione di uno dei tanti cantieri eterni di Roma (si tratta di un punto informazioni del Comune che attende di essere inaugurato da anni, ma prima di ottobre, questa volta, ci sarà il taglio del nastro).
La donna che vive nella cabina sta male. Urla parole sconnesse nella sua lingua che nessuno conosce. Lo fa di mattina presto, appena si sveglia, prima di mettersi in ordine. E’ il suo buongiorno a un mondo che se ne infischia e va di corsa: a piedi, sullo scooter, in auto, in autobus, sul monopattino.
Tutti la lambiscono, nessuno la vede. Lo sguardo su di lei dura una manciata di secondi tra commiserazione e sdegno. Non si merita nemmeno una foto da postare su Welcome to favelas (per fortuna) perché nel disagio conserva una cifra di dignità. E quindi non farebbe ridere.
Nel pomeriggio, di nuovo, si mette al centro di questa isoletta piazzata tra due vie, trasformato in un parcheggio per motorini. E ricomincia: sembra imprecare, rimanda fulmini su in cielo. Articola discorsi e urla. Ce l’ha con qualcuno, chissà. La sentono dai palazzi umbertini: “Rieccola”.
La donna non vuole essere disturbata. Non chiede soldi. Non le interessa l’elemosina. E’ impossibile per i passanti e per i suoi vicini di casa – perché questo ormai sono – avvicinarla. Come stai? Serve aiuto? Risposta: urla e sguardi persi nel vuoto. Al massimo un gesto sbrigativo. Non chiede una coppetta alla gelateria là di fronte o un tozzo di pane al ristorante a pochi metri.
E’ una delle tante virgole di disagio che si trovano Roma, la città che tutti accoglie e tutti alla fine fa disperdere. Ogni tanto spipacchia una sigaretta. Non sono mozziconi raccolti per terra. A volte beve una birra. Ma senza la cadenza del vizio. Mai vista maneggiare un cellulare. Se dovesse telefonare le basterebbe alzare la testa dal suo giaciglio e, spicci alla mano, impugnare la cornetta. Ma telefonare a chi? Di notte, prima di trovare il sonno, riprende il suo sfogo udibile nel raggio di cento metri. Poi si sdraia con i piedi fuori dalla cabina e la testa dentro, al riparo.
Forse potrebbe esplodere da un momento all’altro. Forse potrebbe rimanere lì, con le sue abitudini e le sue urla cadenzate, fino alla fine del dell’autunno. Ha bisogno di aiuto. I vigili del quartiere la osservano come se fosse una macchina parcheggiata lì da tanto tempo. I servizi sociali del Comune non si sono mai visti. Chissà se è vaccinata. Il suo bagaglio a cielo aperto non contempla mascherine. Anche se non ne ha bisogno. Si è imposta da sola l’autoisolamento. Chissà se ha paura del Covid. Chissà se qualcuno prima o poi affronterà la sua storia: per capire, per curarla.
E’ una pantera. Ha lineamenti duri, ma eleganti. Non ispira sentimenti di pietà, aiuto e misericordia. Nemmeno in chi dovrebbe averne di professione. E’ lasciata lì, alla mercé della città incarognita, come lei, forse di più. Una Roma che va veloce e tutto risputa. Che non vede più l’utilità delle cabine telefoniche, figuriamoci se abitate.