L'èra del green pass è un conflitto da dentro o fuori (dal ristorante)
Il Viminale chiarisce: col certificato verde i ristoratori non saranno poliziotti (ma c'è un dentro e un fuori). Le nuove fratture della società italiana in un QR code
L’èra vaccinale era cominciata con lo scandalo della kasta sospettata di vaccinarsi prima del popolo. Pare un’epoca fa: capitalisti a Dubai e Belgrado; Draghi sotto il tendone alla stazione Termini, provando di essere in fila come tutti, oltretutto facendosi iniettare il Lidl dei vaccini, l’AstraZeneca. L’èra finisce, anzi prosegue, coi sindacati a difendere i lavoratori dal vaccino neoliberista.
Nel mezzo, ecco il green pass o certificazione verde. La ministra Lamorgese, leggendaria tempra, traballa. Il leghista Borghi incita gli universitari, gli unici tra gli studenti tenuti al green pass, alla rivolta, tipo Martin Luther King a Berkeley nel ’67 (intanto, tra facoltà neoliberiste e dittatura del merito, quelli hanno già i loro problemi, poracci). Il green pass, anzi la certificazione verde, non dovranno esibirlo i lavoratori, perché i sindacati sono appunto contrari (una pezza di Landini). Non a scuola. Non sui mezzi di trasporto. Insomma, non ho niente contro il green pass, ho molti amici green pass, basta che lo usiate a casa vostra. Indagine sul campo: una palestra in Nord Italia: “Tu mostrami un codice qualsiasi, ti faccio passare”; in centro a Roma, invece, controlli scrupolosissimi. Scoperti trafficanti di QR code fasulli (500 euro, su Telegram). Siamo il paese, è chiaro, col QR code degli altri.
Gli intellettuali però non ci stanno: ben più numerosi di quelli che rifiutarono il giuramento fascista, ecco quelli che rifiutano il giuramento verde. Nella staffetta Aganben e Cacciari vanno fortissimo. Firmano un documento comune. “La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica”, scrivono. “Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire”. Non fanno a tempo a godere della vittoria ex aequo (sì, potete avere l’oro entrambi) che arriva Franco Cardini a scavalcarli a destra o forse a sinistra, sostenendo che il green pass è “totalitarismo liberal-liberista”.
Su “MicroMega” Giorgio Cremaschi indica la terza via: “Il green pass non è certo un atto autoritario, ma piuttosto la certificazione di un fallimento per coprire i disastri del sistema liberale”. “Viviamo in un paese dove le regole formali sono quelle di Draghi, mentre la vita economica e sociale funziona secondo quelle di Agamben e Cacciari”.
Ma è sempre nella ristorazione, l’unica cosa seria in Italia, che si misura l’entità della questione. Ieri il Viminale ha chiarito: i ristoratori non sono tenuti a controllare i documenti. “Non siamo poliziotti”, avevano protestato. Ma intanto il backlash avviene tramite Recensore collettivo, TripAdvisor: al ristorante di cucina ebraica “Ba’Ghetto”, a Roma, “proprio da voi, non ce lo aspettavamo!”, scrive una cliente. Sottinteso: siccome voi foste perseguitati, non dovreste perseguitare noi (queste persone votano). Poi Ilaria Bifarini, che si definisce “autrice e blogger bocconiana redenta”, twitta: “Il ragazzetto di colore che serve al fast food chiede con entusiasmo il lasciapassare. Gli faccio notare che questo è apartheid e in passato si applicava proprio a quelli col suo colore della pelle”. Sempre al ristorante esplode la vera contraddizione, il conflitto insanabile. Due fazioni, inconciliabili. Non destra-sinistra o vaccinisti-No vax. Piuttosto, dentro-fuori. “Pronto, volevo prenotare un tavolo in giardino. “Ha il green pass?”. “Sì, ma vorrei stare all’esterno”. “Niente da fare. L’esterno è riservato a chi non ce l’ha”. Intanto, fuori, addavenì Luciferus.