Addio a Luca Petrucci, avvocato con passione civile e spirito del civil servant
È stato protagonista di processi famosi, assistendo clienti illustri, dalla madre di Marta Russo a Olga D’Antona. Ma non furono questi i suoi meriti maggiori: contribuiva dal suo studio alla civilizzazione delle relazioni umane
Perché parlare di Luca Petrucci. Quello dell’avvocato è un mestiere difficile. Ed è difficile farlo bene. Le leggi sono incerte, gli esiti imponderabili, l’umore dei giudici imprevedibile. Luca Petrucci, nonostante le difficoltà della professione, riusciva a sorridere. Affrontava le sue giornate con la serenità che gli derivava dalla stima di cui godeva tra i colleghi e tra i magistrati di piazzale Clodio. I giornali hanno già parlato dei processi famosi, dei clienti illustri, delle vittime che difese, dalla madre di Marta Russo ad Olga D’Antona.
Ma non furono questi i suoi meriti maggiori. Luca aveva progetti. Luca costruiva. Luca faceva l’avvocato con passione civile e spirito del civil servant; contribuiva dal suo studio alla civilizzazione delle relazioni umane. Parlargli costituiva una pausa negli affanni della giornata. Luca analizzava il presente e il futuro. Quando la giornata si dipana tra leggi confuse, cittadini arrabbiati, domande giuste, ma difficili da soddisfare, il cinismo sembra inevitabile, presa di distanza tra i fatti e la vita. Luca non era cinico. Le risposte cercava di darle, con serenità, rassicurando. La conversazione si chiudeva sempre con un impegno, con una cosa da fare, con una speranza, con un invito a un dibattito, con un sorriso sincero.
Quello dell’avvocato è un mestiere di dolore. La mediazione tra un apparato pubblico e bisogni privati è sempre difficile; lo è particolarmente per chi si trova di fronte a una domanda di giustizia, che spesso è una domanda di condivisione, espressione di una sofferenza. Luca, come ogni altro avvocato, conosceva questa contraddizione tra l’umanità delle domande private e la disumana durezza dell’apparato che a quelle domande doveva rispondere. Vedeva la sua professione sfrangiarsi in mille rivoli, perdersi nelle asprezze del quotidiano, nella difficoltà nella spiegazione dei riti a chi di quei riti era spettatore inconsapevole. Luca, avvocato, capiva il dolore degli altri; la sua diventava a volte una forma di partecipazione, di superamento della solitudine fredda nella quale il dolore ti lascia affondare. La professione dell’avvocato, come quella del giudice, deve assoggettarsi ad una radicale rivisitazione. Le nuove procedure esigono da entrambi duttilità, capacità di previsione, accentuata responsabilità.
Con una scelta processuale sbagliata un avvocato può rovinare una vita; un giudice ne può rovinare più di una. Un processo non è fatto solo di regole. È fatto di regole e di persone; le regole non sono solo ammassi di parole e le persone non sono ombre sullo sfondo. L’avvocato deve estrarre i principi da quegli ammassi di parole e deve dare anima e sangue a quelle ombre. L’avvocato deve spiegare al giudice. L’avvocato, per professione, è uno che spiega, che va alla radice profonda dei fatti cercandone il significato profondo; poi li connette alla norma, li traduce, li rende comprensibili agli altri, agli estranei e che tuttavia devono giudicare i fatti trascurando il dolore: Il dolore si riversa perciò interamente sulla figura dell’avvocato. Fatto e dolore nella vita dell’avvocato sono tutt’uno; ma egli deve separarli perché al giudice il dolore del singolo non deve interessare, mentre lui con quel dolore deve interloquire, per scioglierlo in speranza. Perciò parlare di Luca Petrucci.