La voce del boss
Messina Denaro parla, dunque esiste (anche se l’audio risale al 1993). Cronache di una cattura da troppi anni annunciata, o almeno sperata
Non è stato ancora arrestato, ma almeno sappiamo che in una segretissima cassaforte della Procura nazionale antimafia custodiscono la sua voce. La voce di Matteo Messina Denaro. L’ultimo dei padrini latitanti parla. Parla, ergo esiste. E se uno esiste prima o poi sarà catturato. Nel frattempo la baracca della super procura antimafia resta in piedi a coordinare indagini altrui, a studiare i massimi sistemi criminali e ed annunciare che presto il capomafia sarà assicurato alle patrie galere.
Il Tg1 nei giorni scorsi ha fatto ascoltare la voce di Messina Denaro. Un audio del 1993, registrato pochi mesi prima che iniziasse la sua latitanza e recuperato grazie al lavoro dell’associazione antimafia Rita Atria. Il Vhs, da cui è stata estrapolata la deposizione del boss in un processo per omicidio a Marsala, ha il valore di una prova ontologica. Il pubblico ascolta la voce del giovane padrino e si rende conto che lo stragista di Castelvetrano, oggi cinquantanovenne, è un uomo in carne e ossa e non un fantasma.
La sua voce fa da contrappeso ai roboanti annunci sulla base dei quali stavamo e staremmo per prenderlo. Più la sua cattura viene indicata come imminente e più si alimenta il clima di diffidenza, sospetto e rassegnazione. Forse sarebbe il caso di mantenere un profilo più discreto onde evitare di alimentare invano le speranze degli italiani onesti.
“Sentire la voce di Messina Denaro è qualcosa di molto importante, tuttavia devo dire che Ros, Polizia e Scico hanno documenti anche sonori idonei a fare comparazioni”, ha detto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, commentando lo scoop della Rai. Mica si poteva pensare che i magistrati aspettassero la tv per acquisire la voce dell’ultimo dei corleonesi. Che sia stata dunque la voce del latitante acciuffata chissà dove ad avere spinto De Raho a dire, più volte, “lo arresteremo a breve”? Era il 2020 e le parole del magistrato avevano un non so che di pragmatico, un tono diverso dal solito. Sembrava davvero di essere lì per lì. Nulla a che vedere con le dichiarazioni di gennaio 2019 quando sempre il procuratore disse: “Sarà proprio l’anno della fine della sua latitanza”. Capodanno, si sa, è la stagione dei buoni propositi e degli auspici stimolati dall’onda emozionale o dalle divinazioni astrologiche. Nell’estate 2021 siamo qua ancora a coltivare la speranza.
Chiunque arrivi alla Direzione nazionale antimafia per contratto deve annunciare l’imminente arresto del boss stragista per ancorare l’esistenza stessa della Dna alla figura del latitante. Cafiero de Raho ha dei precedenti illustri. “Ora puntiamo al boss trapanese Matteo Messina Denaro”, disse l’allora procuratore nazionale Pietro Grasso nel 2009, prima di darsi alla politica, nel giorno in cui altri due latitanti venivano scovati a Milano e Palermo. “Dei capi di Cosa nostra ne manca solo uno: Matteo Messina Denaro. Lo prenderemo”, annunciò nel 2015 Franco Roberti, appena nominato procuratore nazionale, timbrando il cartellino dell’ottimismo.
Cafiero de Raho si è inserito nel solco della tradizione. D’altra parte ve l’immaginate un procuratore che all’atto del suo insediamento depone le armi con frasi del tipo: “Ci dispiace, non lo prenderemo mai”. Credere nell’arresto significa dare un senso e un indirizzo alla propria esistenza professionale, mostrare al mondo la necessità del lavoro dell’intera squadra dei venti magistrati della Dna. Oppure si può spiattellare l’inutilità degli sforzi, precisando però che le colpe sono altrui. Come ha fatto Maria Teresa Principato, oggi componente della Direzione nazionale antimafia e un tempo procuratore aggiunto di Palermo, dove coordinava le indagini sulla latitanza del boss di Castelvetrano. “Io non ho fiducia che si possa catturare Messina Denaro”, ha detto. Lo protegge una “rete massonica” in giro per il mondo. Perché Messina Denaro ha un amico che lo aiuta ovunque, dalla più piccola delle stanze dei commissariati al più lussuoso degli hotel affacciati nei mari caraibici.
Se ne sta protetto chissà dove e nel frattempo muove una holding degli affari criminali. Non c’è spillo che non venga a lui ricondotto. In decenni di indagini hanno sequestrato e confiscato beni per miliardi di euro fra imprese edili, grandi alberghi, oleifici, strutture sanitarie, aziende vitivinicole, impianti di energie alternative, cooperative varie. Diventa difficile capire se esista economia sana in provincia di Trapani.
Gli hanno arrestato di tutto. Un elenco che fa impressione: Salvatore Messina Denaro (fratello), Anna Patrizia Messina Denaro (sorella), i cognati Vincenzo Panicola (marito di Anna Patrizia), Gaspare Como (marito di Bice), Rosario Allegra (marito di Giovanna), Filippo Guttadauro (marito di Rosalia), Francesco Guttadauro (figlio di Filippo Guttadauro e Rosalia Messina Denaro, dunque nipote), Luca Bellomo (sposato con Lorenza Guttadauro, sorella di Francesco). Di lui neppure l’odore e la sua autorevolezza vacilla fra gli stessi mafiosi. “Cioè arrestano tutti i tuoi parenti e tu non ti muovi? Ma fai bordello… svita a tutti… dici ‘uscite tutti fuori… sennò vi faccio saltare’”, diceva un boss di San Giuseppe Jato. Niente, la sua presenza resta impalpabile. Silenzio assoluto, almeno fino al prossimo blitz o al prossimo sequestro che sarà ricondotto al latitante.
Nel frattempo sul tavolo della Procura di Palermo, che coordina le indagini, si accumula una montagna di segnalazioni sulla presenza in giro per l’Italia e per il mondo di Matteo Messina Denaro. Duecento e più fascicoli. Alcune segnalazioni si presentano sul nascere come inverosimili. Altre no, perché non si può escludere che il latitante sia nascosto nel più anonimo degli appartamenti nella periferia di una grande città italiana. O nel piccolo centro di provincia.
La faccenda si complica quando la segnalazione arriva dal più remoto dei continenti. A molti segnalatori fa gola la taglia messa dai servizi segreti sulla testa del capomafia. Nel 2010 trapelò una cifra vicina al milione e mezzo di euro. Dieci anni dopo sarà certo aumentata. Nonostante la ricompensa la soffiata giusta non arriva.
E si continua a cercare. Anzi a rastrellare ogni centimetro quadrato di Castelvetrano e dintorni, non tanto perché si crede che, come da tradizione (la storia di Bernardo Provenzano docet), alla fine il latitante si senta più sicuro a casa, piuttosto perché si spera di trovare un indizio.
Non c’è abitazione, garage, cantina o anfratto che non sia stato perlustrato. Gli investigatori conoscono ogni mattonella del paese in provincia di Trapani. Niente, neppure un pizzino, una letterina, una fotografia che rappresenti una traccia. Il padrino non c’è. E’ un fantasma, nonostante da anni venga ricondotto alla sua volontà tutto ciò che avviene in provincia di Trapani, dalla disputa per un terreno a pascolo all’apertura di una bottega in paese, alla costruzione di un mega impianto fotovoltaico.
I mafiosi della zona sono insofferenti, troppe forze dell’ordine in circolazione “perché con questo minchia di Matteo Messina Denaro da questa parte qua ci sono i reparti speciali…”.
A casa della madre Lorenza Santangelo c’è un ritratto del figlio Matteo, stile Andy Wharol, con tanto di corona in testa. Ad ogni perquisizione spunta fuori il filmato dell’effigie regalata alla famiglia, pare, da un tatuatore locale. Fa il giro delle prime pagine di televisioni e giornali e il mito dell’imprendibile capomafia si alimenta. Non lo vogliono arrestare perché “se si pente lui”, dicono in tanti, “crolla tutto”.
E così le buone intenzioni dei procuratori nazionali antimafia finiscono per suonare beffarde. L’ennesimo annuncio dell’imminente cattura una volta indispettì il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, che assieme al capo dell’ufficio Francesco Lo Voi coordina le indagini sulla mafia trapanese: “Un latitante o si cattura o non si cattura. O lo abbiamo preso, o non siamo vicini a prenderlo. Perché se fossimo vicini a prenderlo, peraltro annunciandolo, penso che il latitante difficilmente lo prenderemo...”. Come dargli torto, ma attendere in silenzio la cattura di Messina Denaro significherebbe chiudere l’acqua che alimenta il mulino della Direzione nazionale antimafia, approdo sicuro al culmine di una lunga carriera.
La Dna è il luogo dell’intellighenzia dell’antimafia, dove si studiano le organizzazioni criminali – ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra – e la loro penetrazione nella società italiana. Sguardi d’insieme, che confluiscono in copiose relazioni, frutto del coordinamento delle varie procure distrettuali del paese. La missione della Dna è, appunto, il coordinamento. Un ruolo che di operativo ha nulla o quasi.
Doveva nascere una Superprocura a immagine e somiglianza di Giovanni Falcone. Un’idea che attirò non poche polemiche, vedendo in essa il rischio di una grossa concentrazione di potere in una sola persona e la possibile ingerenza della politica nel lavoro della magistratura. Tre decenni dopo le armi della Dna sono rimaste spuntate. Le indagini non sono materia della Procura nazionale che supporta, coordina, alimenta la banca dati, fa da arbitro alle beghe delle singole procure distrettuali antimafia. L’unico guizzo si registra quando il procuratore nazionale o uno dei suoi venti sostituti deve intervenire per mettere la pace fra procure “gelose” delle proprie indagini. Come accadde fra i pm di Palermo e Caltanissetta che arrivarono ai ferri corti sulla gestione di Massimo Ciancimino. I pubblici ministeri nisseni si sentirono scippati dell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Ciancimino jr per calunnia. Un arresto chiesto e ottenuto dalla procura di Palermo. Allora il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo era ancora una star della tv e delle aule di giustizia.
La Direzione nazionale antimafia si occupa per lo più di coordinare, di dirigere il traffico. Il procuratore di turno si insedia nella speranza che un giorno, speriamo vicinissimo, tocchi a lui presiedere la conferenza stampa in cui sarà annunciato l’arresto di Matteo Messina Denaro.
Del latitante improbabili testimoni hanno riferito che si è rifatto il volto con una radicale plastica facciale, ha cancellato le impronte digitali intervenendo sui polpastrelli, ha cambiato persino il tono della voce con un’operazione alle corde vocali. Dunque la voce non sarebbe più la stessa dell’audio del 1993 recuperato grazie all’associazione che porta il nome di Rita Atria. Un audio che ha il merito di avere dimostrato che il fantasma Messina Denaro parla e se parla allora esiste e può essere arrestato. A quel punto bisognerà rivalutare la funzione dell’intera macchina della super procura antimafia.