L'eterno ritorno della cittadella dello sport al Flaminio
Un polo sportivo che non sia solo dedicato al calcio, per le partite delle squadre minori e per i concerti. L'ultima idea per lo stadio e il Palazzetto è del candidato sindaco di Roma Carlo Calenda. Ma è dagli anni Ottanta che ricorsivamente questo progetto ritorna in auge
Se ne stanno lì, uno davanti all’altro a guardarsi. Altro non possono fare se non questo, il Palazzetto dello Sport e lo stadio Flaminio. Non c’è nulla che possa attrarre attenzione al loro interno. Tra loro c'è solo un parcheggione, qualche albero, più di un camper, pure quelli immobili. “Alcuni sono là da anni, chissà se sono ancora di qualcuno”.
Carlo Berelli lo sa bene, vive a pochi passi da lì, nella distesa di asfalto grattugiato porta a passeggiare i cani, due: Romolo e Remo. “La fantasia non conta qui, sono figli della Lupa. E mica per scherzo, si chiamava Lupa la madre loro”.
Verso la parte alta dell’ansa del Tevere il Palazzetto dello Sport, più verso la città lo stadio Flaminio, cinquecento metri a dir tanto tra loro, cinquecento metri di quiete e abbandono.
Il Flaminio e il Palazzetto dello sport Carlo Berelli li vede ogni volta che si affaccia dalla finestra, ogni giorno “mi gusto l’immobilità e la sciocchezza della politica. Perché se queste due bellezze sono in questo stato è anche colpa di chi ha permesso che nulla accadesse in questi anni. E dire che di tempo ce ne sarebbe stato”.
Carlo Calenda ieri ha detto che “la soluzione migliore per il Flaminio e il Palazzetto è quella di fare insieme al Coni, cosa che avevamo proposto tre anni fa nel tavolo Roma, una cittadella dello sport, dove si possono praticare gli altri sport, le partite delle squadre minori, i concerti”.
“N’altra volta”. Ride di gusto Carlo Berelli a sentire dire questo, a leggere queste parole. Non perché l’idea sia sciocca o oscena, tutt’altro. Perché è una buona idea, “talmente buona che è venuta a tanti, a tantissimi. Talmente una buona idea che è diventata una chiacchiera da bar, di quelle che si mettono sul tavolo con le carte da briscola”.
Non parla a caso, non per sentito dire. Dice così per esperienza. È in pensione da una dozzina d’anni, prima ne ha passati una trentina negli uffici comunali di Roma, reparto urbanistica, quello che oggi si chiama Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica, “ma che è lo stesso, c’hanno cambiato solo nome. Io stavo là, mi occupavo di progetti nati morti. Stavo sulle scatole al capo di allora, e pure a quelli successivi, c’ho sempre avuto un caratteraccio”.
Uno dei primi incarti che gli sono arrivati sulla scrivania riguardava proprio la zona dove è nato e tutt’ora risiede. “Mica s’è inventato niente Calenda. C’era ancora Ugo Vetere al Campidoglio, un gran signore. C’aveva l’idea di rendere Roma ancor più magnifica di quella che era. Erano gli anni Ottanta, per le vie succedeva di tutto e lui aveva il sogno che il bello potesse affievolire la forza della cattiveria”, ricorda Berelli. Era la fine del 1982 o forse del 1983. “A lui o non so chi gli era venuto in mente di fare tra il Flaminio e il Palazzetto un luogo dello sport. Ci volevano mettere prati, parcheggi, attrezzi per tutti. Uno andava là e faceva tutto lo sport che voleva. Dalla pallacanestro al calcio, passando per le corsette e non so che altro, sono mai stato uno sportivo. Mi arrivarono gli incarti per vedere i dettagli tecnici. Completai la revisione dopo qualche settimana, ma non credo che il faldone sia mai uscito dall’ufficio del mio capo. Rimase là sospeso”.
Gravitò tra le polveri di uno scaffale per anni. “Mi ritornò in mano che in Campidoglio ci stava Nicola Signorello. Rifeci quello che avevo fatto, ma anche quella volta non ne seppi più nulla”.
Ogni tanto la cittadella dello sport al Flaminio ritorna in auge, se ne parla un po’, ci si confronta, a volte si litiga, “perché c’è chi la vorrebbe così, chi colà. Se si sommassero le intenzioni sarebbe un luogo meraviglioso”. Ma non accade nulla. Walter Veltroni la diede per fatta: “D'intesa con la Sovrintendenza di Stato e con la famiglia Nervi stiamo progettando l'ampliamento dello stadio Flaminio a 40.000 posti, per farlo diventare lo stadio della Lazio e del rugby". Era il 2006, “l’idea era quella di sistemare un po’ tutto attorno”, sottolinea Berelli, ma se ne fece niente in realtà se non piccoli lavoretti.
Quarantamila persone al Flaminio ci entrarono, il rugby prese possesso del campo e degli spalti (che osservavano la Nazionale dal 2000). La Lazio però non prese mai dimora. E pure il rugby se ne andò. Alla fine del Sei Nazioni del 2011. Da allora poco o niente. Un decennio di solitudine, amplificato dall’abbandono nel 2018 di qualsiasi forma di sport dal Palazzetto.
Quei cinquecento metri che distanziano i progetti di Nervi padre (il Palazzetto) e Nervi figlio (il Flaminio) sono rimasti disabitati, in un silenzio noioso e rilassante, se non ci fosse ogni tanto “qualche ragazzino che ferma la macchina, mette la musica a palla si beve qualche birra con gli amici, qualche canna, insomma cose da giovani. Una volta c’erano le prostitute, qualcuna si affaccia ancora, ma non faccio vita notturna da parecchio e di schifezza in giro non ce n’è più come anni fa”.