un reportage antiretorico
Salento, Italia. Un viaggio
Sotto quello che un tempo era l’Apollo Theatre del reggae italiano, il Mamanera di San Foca, oggi scorre invisibile il microtunnel del Tap. Abbiamo fatto un giro, con sorprese
"Se infili una mano nel terreno il calore di solito si avverte solo nei primi uno o due centimetri, in questi giorni si riesce a sentire fino alla punta della dita.” racconta Giovanni Melcarne, imprenditore olivicolo e una delle mie fonti di lunga data sul disastro della Xylella. Melcarne compie esperimenti con innesti e semenzali sperando di trovarne di resistenti al batterio ed è una delle poche voci che nel Salento si sono sempre spese per una stretta collaborazione fra agricoltori, scienziati e ricercatori. Siamo in ufficio, nel suo frantoio a una manciata di chilometri da Santa Maria di Leuca, benedetti dal ronzio dall’aria condizionata. Una cappa di calore si è abbattuta sul Salento da metà giugno e si è mantenuta costante per oltre un mese e mezzo lasciando raramente la possibilità alla tramontana di agitare il mare e rinfrescare le persone. Ci si muove così fra i pochi ambienti condizionati come fra oasi nel deserto, le liste d’attesa per farsi installare nuovi impianti sono lunghissime, i rivenditori sfoggiano larghi sorrisi, tutti gli altri boccheggiano anche di notte, quando la temperatura scende di forse due o tre gradi, attorno ai 36 sulla costa, qualcosa di più nell’entroterra: è l’estate del faugnu, un termine che in salentino indica sia il caldo asfissiate che il vento da sud che lo porta con sé. Secondo Melcarne potrebbe essere interessante cercare di capire se la mancanza di una copertura vegetale – dopo che la Xylella ha ucciso 85mila ettari di ulivi rendendo il Salento in larga parte un territorio secco e brullo – c’entri qualcosa con questa ondata di calore anomala, per il momento però è solo un’ipotesi da verificare.
Qui ci sono arrivato dentro un’altra bolla di aria condizionata, quella della mia auto; da giorni sto attraversando bretelle, statali e superstrade deserte sotto il sole della controra, un’attimo prima dell’inesorabile invasione agostana che si profila all’orizzonte. Mi muovo nel tentativo di tracciare una breve mappa aggiornata del Salento a vent’anni circa dall’inizio del travolgente boom del turismo. Nel 2015 uscì “Lascia stare la gallina” (LSG) – un romanzo appena ripubblicato negli Oscar Mondadori – un libro in cui raccontavo le vicende di un coro di personaggi durante la lunga e trafelata estate salentina del 2011: giovani che affollavano le dance hall in spiaggia, le discoteche, i festival, la Notte della Taranta, lavoratori del turismo, ex contrabbandieri in cerca di riposizionamento, ristoratori, camerieri, spacciatori, dj e sullo sfondo il mondo del potere locale che si preparava al tramonto del berlusconismo. In quel momento il turismo nel Salento aveva già raggiunto da circa dieci anni una scala prima del tutto impensabile ma erano ancora da venire lo strapotere dei social, gli influencer, il successo dei populisti digitali di ogni risma, così come la TAP – il gasdotto transadriatico che approda nell’est del Salento – non era ancora diventata una battaglia politica, il disastro della Xylella doveva ancora deflagrare e il Covid era uno scenario fantascientifico. Sono passati soltanto dieci anni ma durante questo periodo si è definitivamente consumato anche il passaggio dalla società della televisione (simbolo locale: la statua di Manuela Arcuri sul lungomare di Porto Cesareo) a quella di internet (simbolo locale: Chiara Ferragni in visita alla basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina). Molti dei personaggi di LSG allora correvano in macchina per le statali e le vicinali che collegano quella costellazione umana che sono i 97 paesi del Salento e ai loro lati scorrevano inevitabilmente filari e filari di ulivi verdi, sempre e solo ulivi perché il Salento era sostanzialmente una monocultura. Oggi chi arriva dalla Bari-Lecce incontra una cupa distesa di ulivi morti che prima quasi spaventa, poi stringe il cuore. All’altezza della centrale di Cerano le macchie grigie nelle chiome crescono di grandezza e di frequenza fino a quando la superstrada non si ritrova a scorrere fra due spettrali file di alberi morti, un cimitero lungo decine e decine di chilometri.
Oltre alle distese di ulivi morti e ai campi bruciati, si vedono ovunque i manifesti delle discoteche del territorio accompagnati dalla specificazione in calce “Non discoteca”: escamotage da tempi di Covid
Ogni tanto appare la chiazza verde di un uliveto di Leccino – una delle due cultivar resistenti al batterio – come fosse una distorsione subliminale nel segnale e poi di nuovo tronchi e rami secchi, scheletri senza foglie protesi verso quel cielo azzurro spento che è tipico delle giornate di faugnu. Questo ininterrotto camposanto vegetale colpisce molto l’occhio del viaggiatore, meno quello di chi qui ci abita e da un po’ di tempo ha ormai completato il ciclo del lutto. Ci si abitua a tutto, come ha dimostrato la pandemia di Covid, e questa non è certo l’unica analogia fra virus degli umani e il suo antesignano vegetale: anche Xylella ha avuto gli scienziati capri espiatori, gli esperti da tastiera, i complottisti e i negazionisti che rifiutando l’esistenza della malattia e opponendosi alle misure di controllo hanno di fatto agevolato la distruzione agricola e paesaggistica di un intero territorio e consegnato all’Italia una bomba fitosanitaria che è ben lungi dall’essere disinnescata. Va considerato infatti che Xylella non colpisce solo l’ulivo ma anche parecchie altre specie vegetali. In Puglia il batterio copre ormai il 40% del territorio e punta verso nord al ritmo di qualche decina di chilometri ogni anno. Per Xylella non esistono cure, nel caso degli ulivi ci sono solo due varietà che per il momento sembrano essere resistenti, per il momento perché i dati sono necessariamente limitati al tempo trascorso dagli inizi degli esperimenti e quindi sul futuro non c’è certezza. Il problema oggi è ripiantare le varietà resistenti e sperare che durino: degli 85 mila ettari di ulivi la maggior parte è morta ormai da anni, i campi però sono ancora in attesa di essere estirpati e poi rimpiantati. Sulle prime estirpare un ulivo era una faccenda complicata fino al confine con l’impossibile dal fatto che si tratta di una specie protetta, nei territori colpiti da Xylella questo problema è stato superato ma continuano a mancare i fondi. Il costo complessivo del rimpianto dei dieci milioni di ulivi morti solo nella provincia di Lecce si aggirerà attorno ai 700 milioni di euro, dei quali ad oggi ne sono stati stanziati complessivamente poco più di 200, nel frattempo le aziende che hanno investito nei mezzi necessari a estirpare gli alberi e farne combustibile per le centrali a biomassa sono costrette a tenerli fermi nei piazzali. Secondo Melcarne basterebbe creare una fotografia della situazione attuale, un documento che certifichi agli olivicultori il numero esatto delle loro piante, in modo che se decidono di non perdere altro tempo e di reimpiantare a loro spese possano poi partecipare ai bandi successivi e ottenere a posteriori il rimborso. Oltre alla lentezza della burocrazia, l’altro grande problema qui è da sempre quello di legare i contributi all’effettivo svolgimento delle attività agricole, fare insomma in modo che i soldi pubblici contribuiscano alla salute di aziende attive e alla tutela del territorio e non alla mera rendita fondiaria. “L’erogazione della cosiddetta integrazione comunitaria è già legata allo svolgimento di alcune buone pratiche agricole, a partire dallo sfalcio delle erbe, molti proprietari però percepiscono i soldi e poi non fanno i lavori, il risultato è un aumento esponenziale del rischio di incendio”. Gli incendi di oliveti secchi si sono moltiplicati nell’estate del faugnu e dopo le fiamme sotto la terra arsa rimangono le radici, a quel punto difficilissime da eliminare. Se poi i campi bruciati avevano gli impianti a goccia nel terreno finisce anche la plastica dei tubi sciolta dal fuoco. Dietro l’incubo fitosanitario continuano insomma a coesistere i vecchi vizi e le farraginosità burocratiche di sempre, nel frattempo le macchine per le moliture dei frantoi vengono vendute in Grecia, Spagna e in Algeria, perché ormai è evidente che la maggior parte di loro non riprenderà più l'attività. “L’unico aspetto positivo è che se riusciamo a reimpiantare 40mila ettari con le tecniche di oggi possiamo fare la stessa produzione che prima facevano con 85mila. Si evita così la monocoltura ma rimane il problema di cosa fare con i 45mila ettari mancanti, cosa piantare, dove rimboschire e come, insomma serve una visione complessiva del futuro di questa terra e questa a oggi manca.” conclude Melcarne. Dopo 7 anni dall’inizio della crisi si attenderà che la politica si muova ancora una volta un passo abbondante dietro a tutti gli altri.
Oltre alle distese di ulivi morti e ai campi bruciati nel Salento del 2021 si vedono ovunque i manifesti delle discoteche storiche del territorio accompagnati però dalla specificazione in calce “NON DISCOTECA”, un escamotage da tempi di Covid. Nell’estate di LSG il movimento reggae e dancehall era invece al suo apice, fra Otranto e San Foca ogni sera si tenevano più eventi con migliaia di persone, talvolta decine di migliaia. Il Salento in quel periodo era noto anche come la Giamaica d’Italia, concetto ribadito non solo nelle canzoni dei Sud Sound System e dei Boomdabash ma anche da un coro della curva del Lecce “Salento e musica/dell’Europa la Giamaica/vento sole caldo d’Africa/la terra più bella che c’è”. Negli anni novanta contribuì alla costruzione di questa analogia giamaicana anche l’invasione del Salento da parte di tonnellate di erba albanese a bassissimo prezzo, un fenomeno all’origine delle fortune dei Salvatore Petrachi e Adamo Greco, i due personaggi principali di LSG. Tuttavia il fatto che l’ambiente fosse ammorbidito dall’erba di Lazarat in arrivo via gommone non può far passare in secondo piano il fatto, più unico che raro, che per un periodo lungo circa vent’anni nel Salento due generi musicali del tutto estranei al territorio (il reggae e la dancehall) si siano fusi con il dialetto salentino, con gli echi di tradizioni contadine (un esempio fra i più riusciti è il testo di “Solidu comu na petra” dei Sud Sound System) e influssi di altri generi musicali per creare un movimento giovanile spontaneo che montava torri di casse sulle spiagge, sulle scogliere, negli uliveti per ballare fino all’alba. Inevitabilmente, durante le notti di quell’epoca, il selecta girava il disco giamaicano sul lato della strumentale e molti ragazzi si mettevano a cantare in raggamuffin dialettale le loro storie di vita quotidiana. Non erano solo universitari o frequentatori di centri sociali come erano stati i fondatori del movimento, ma da un certo momento in poi anche vagnoni di paese dai lavori umili quando non umilissimi. Fra di loro anche Rocco, fra i personaggi di LSG forse il mio preferito, un muratore-spacciatore poco più che ventenne diviso fra lavoro in cantiere di giorno (ogni estate il Salento si riempie di cantieri pubblici e privati non pianificati per tempo) e dancehall di notte, ritmi impossibili sostenuti solo grazie alla giovane età e alla cocaina. Alcuni metri sotto quello che era una sorta di Apollo Theatre del reggae italiano, il Mamanera di San Foca, oggi scorre invisibile il microtunnel della TAP. Sopra, sulla spiaggia, le dancehall del locale sono ferme da due estati per via del Covid e gli unici segni rimasti di quella festa lunga vent’anni sono l’insegna all’ingresso e i bidoni della raccolta differenziata con i colori dell’Etiopia. A vedere il posto oggi, con lettini, ombrelloni e famiglie che prendono il sole, chi non c’era non potrebbe mai immaginare cosa è stata quella spiaggia per decine di migliaia di persone, non solo salentine. Nel tempo quella che sembrava solo una questione di divertimento notturno si è fatta immaginario, ha creato formule buone per l’inconscio che resistono anche oggi che quel tipo di festa pare tramontato. La retorica del pan-salentinismo diffusa dei primi dischi dei Sud Sound System – una sorta di nazionalismo salentino che propugnava orgoglio e un forte riscatto etnico e linguistico, in primis attraverso l’uso programmatico del dialetto – si è sedimentata dentro il modo di vedere sé stessi e gli altri, ovvero i non salentini. Quando Checco Zalone imitando Giuliano Sangiorgi dei Negroamaro gli fa dire dire “Siamo andati negli Stati Uniti, un posto a occidente del più famoso Salento” coglie con la consueta precisione l’aspetto comico, talvolta grottesco, di questa esplosione identitaria che come molte altre cose in Salento tende a mancare di misura, il che è il suo fascino e il suo limite, come evidenziato anche dagli articoli satirici di “Salento XIX”, una sorta di lercio.it salentino che ha purtroppo cessato le pubblicazioni ma ha ancora online il suo archivio. Sempre in quest’ottica alcuni miei amici hanno una teoria scherzosa che, forse in virtù del mio essere salentino a metà, condivido, ovvero che sia sufficiente risalire al massimo 2 gradi di separazione e non ai consueti 6 della teoria di Frigyes Karinthy per giungere all’origine salentina di un qualsiasi grande evento dell’umanità. Non basta però certo il reggae per spiegare come sia possibile che molti qui scambino l’interesse dei turisti per le spiagge con le acque trasparenti per una tacita attestazione di superiorità della civiltà salentina, per provarci bisogna quindi prendere in considerazione la natura di penisola – tendente all’isola culturale – di un territorio che non solo giunge all’estrema propaggine sud-orientale d’Italia ma nella sua storia ha conosciuto scorribande saracene, una nobiltà parassitaria e in tempi più recenti fenomeni di emigrazione di massa verso il nord d’Italia e d’Europa. Un popolo fiero di sé ma che nella sua componente un tempo contadina conserva ancora nelle espressioni dialettali, negli assunti pregiudiziali, negli atteggiamenti che passano di generazione in generazione, un’abitudine naturale a considerarsi la parte perdente e predata dei rapporti di forza. Un popolo avvezzo all’economia a somma zero tipica delle società contadine, una visione per cui la ricchezza complessiva non aumenta mai, al massimo si sposta da una persona all’altra e di solito non per motivi nobili. Con la limitata e parziale eccezione del capoluogo i salentini sono stati a lungo abituati ad essere ai margini, ignorati dal resto del Paese. Il Sud del Sud.
Un tempo, lo ricordava anche Guido Piovene nel suo insuperato Viaggio in Italia, era impossibile trovare un albergo ad di fuori di Lecce, allora il Salento era una terra prettamente agricola, povera ma come si suol dire dignitosa, a lungo priva di quei fenomeni criminali che hanno invece contraddistinto altre aree del meridione. Un feudo ai margini del territorio conosciuto, con i suoi tramonti da landa alla fine del mondo, la terra rossa, i cieli screziati, i silenzi spezzati solo dal volo degli uccelli, gli ulivi e in quel tempo davvero nessuna vocazione turistica, un fatto che a posteriori sembra del tutto inspiegabile ma ha fornito quel fascino dell’inesplorato che ha contributo a mettere in moto ciò che è accaduto dopo. É stata proprio l’invasione dei forestieri a ridefinire i termini di quella divisione, che nel Salento è ancora nettissima, fra città e paesi. Lecce è stata una città di nobili e latifondisti prima, avvocati, burocrati e professionisti dopo, genti sospese fra una pulsione teorica all’internazionalità e un’innata e inconfondibile leccesità, dall’altra parte invece ci sono i paesi contadini, più sanguigni, dialettali, folkloristici e per molti versi anche più naïf: teste così esposte alla furia energica della tramontana da finire spesso per riprodurla nei comportamenti, negli atteggiamenti e in un certo modo binario di vedere il mondo. Un esempio straordinario di questa identità salentina di paese è l’architettura sincretica di molte case private costruite nella seconda metà del novecento, abitazioni spesso edificate grazie alle rimesse degli immigrati, progettate sommando a piacere gli esempi contenuti nei manuali di architettura e declinandoli secondo le possibilità produttive del posto. Il risultato è una sorta di barocco moderno e informale che è stato considerato a lungo un semplice obbrobrio, un’offesa alla vista, e solo di recente è stato teorizzato come una corrente architettonica da un libro originale e ben riuscito: “Salento Moderno – Inventario di abitazioni private del Sud della Puglia ” (Humboldt 2018), curato da Davide Giannella e Massimo Torrigiani. Proprio Torrigiani descrive queste case come costruzioni “dalle strutture semplici, progettate dai geometri e poi arricchite con furore decorativo”. Torrigiani dice di aver sempre considerato quelle case così anomale e poco stimate come una sorta di Salento “alternativo a quello delle masserie”, più vivo, meno chic, un Salento costruito da persone “che volevano distinguersi”. Impossibile non riconoscere, in queste costruzioni che sfoggiano alla rinfusa tante ispirazioni diverse, quella grandeur vitale e ingenua che è la specifica tonalità di naïf che contraddistingue la cultura salentina di paese, la stessa dei due gradi di separazione e del pan-salentinismo, una mentalità caratterizzata della volontà di esprimersi senza prestare attenzione al canone – o forse senza neppure conoscerlo – e senza alcun interesse o timore reverenziale nei confronti delle cerimoniose formalità borghesi che sono tutt’al più una faccenda da leccesi. Il passaggio da periferia dell’esistente (citando un noto pugliese del nord) a gettonato hashtag di Instagram grazie al boom del turismo è avvenuto in maniera così repentina che è come se all’improvviso si fosse aperto nel terreno un enorme giacimento di petrolio.
I risultati in alcuni casi sono stati paradossali come è accaduto ad esempio nel comune di Melendugno, un territorio dotato di alcune delle marine più belle delle costa adriatica, fra le quali spicca la lunga spiaggia sabbiosa (merce piuttosto rara da queste parti) di Torre Dell’Orso, con i suoi fotografabilissimi faraglioni delle Due Sorelle; un territorio paesaggisticamente inestimabile sfregiato da ormai due decenni abbondanti di speculazione edilizia e turismo di massa: parcheggi, villaggi e case private che negli anni si sono spinte a fondo nell’entroterra. Così come Porto Cesareo o Gallipoli, nei discorsi dei salentini “Torre dell’Orso” è diventato negli ultimi anni sinonimo di sovraffollamento, un luogo simbolo di cosa succede quando la gestione del turismo fallisce nel tentativo di sviluppare il comparto economico tutelando al contempo il territorio.
Non senza una certa ironia è stato proprio il comune di Melendugno a erigersi difensore del territorio salentino durante la battaglia contro la TAP, il che mostra tutti gli enormi limiti della retorica identitaria quando diventa solamente uno slogan senza sostanza. La scena madre di tutte le proteste contro la TAP è stata quella in cui i sindaci provenienti da tutto il Salento protestavano con tanto di fascia tricolore a tracolla per la rimozione temporanea di 1100 ulivi dal tracciato del gasdotto, il tutto mentre nella stessa provincia veniva lasciata libera la Xylella di ucciderne definitivamente dieci milioni. È sul sottile ma sostanziale confine fra massimi sistemi e retorica da una parte e capacità pratica di governo dall’altra che si snodano molti dei problemi che hanno segnato in maniera pesante la storia salentina degli ultimi anni, cambiando il territorio in maniera radicale. Da TAP nel frattempo fanno notare come in nessun altro territorio interessato da opere di questo tipo sia accaduto quello che è successo nel Salento e si rammaricano che nessun rappresentante del comune di Melendugno ad oggi abbia fatto visita all’impianto, ormai completato e funzionante e, aggiungo io che invece l’ho visitato, modernissimo e iper-tecnologico. Allo stato attuale delle cose il comune di Melendugno si ritrova con l’opera finita sul suo territorio e nessun soldo ricevuto per il disturbo, un lose-lose da manuale, una gestione simbolo di una classe politica che piuttosto che tutelare il territorio per i rischi che si assume impegnandosi in trattative anche dure con gli interlocutori di turno preferisce cavalcare il malcontento massimalista e finisce così per ritrovarsi senza niente in mano.
La scena madre di tutte le proteste contro il Tap è stata quella in cui i sindaci protestavano per la rimozione temporanea di 1.100 ulivi, mentre nella stessa provincia veniva lasciata libera la Xylella
E’ in casi come questi che la grandeur salentina smette in fretta di essere bonaria e divertente e incomincia a generare domande. La società del gasdotto ha speso 15 milioni di euro solo per spostare con navi e sommozzatori le biocostruzioni e i coralli sul tracciato del tubo e poi rimetterli al loro posto una volta completato l’impianto e ora che l’opera è conclusa e ci si è resi conto che la sua presenza è molto più discreta di quanto non prospettassero molti No-TAP anche a Melendugno le persone incominciano a farsi delle domande su come sia stata gestita la vicenda. I soldi offerti dal consorzio avrebbero fatto molto comodo a un territorio che nonostante la forte presenza turistica nelle marine ha strade dissestate, uno storico problema di crolli delle falesie e addirittura un parcheggio realizzato sopra una parte dell’area archeologica di Roca per finanziare il mantenimento della parte restante. Davide Sempio di TAP ribadisce che “TAP è qui per rimanere e la nostra politica di investimenti per il territorio resta invariata: per noi il dialogo continua a essere prioritario” il che, numeri alla mano, significa circa 25milioni di euro ancora sul tavolo per la comunità. Nel frattempo però si sono scatenate le guerre in tribunale con i manifestanti No-TAP che hanno già ricevuto delle condanne per gli scontri, in alcuni casi anche piuttosto pesanti, e TAP che è stata denunciata per reati ambientali con richieste di indennizzi economici stratosferici. Nel gennaio 2021 sono invece state prorogate le indagini riguardanti Marco Potì e altre 4 persone per vicende di appalti, concessioni, nomine e consulenze del tutto estranee a TAP, in questo caso le ipotesi di reato vanno dall’ associazione a delinquere alla corruzione per esercizio delle funzioni, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, turbativa d’asta e falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Secondo l’edizione pugliese di Repubblica “gli investigatori si stanno soffermando, in particolare, sull’esistenza di una presunta cricca che avrebbe favorito determinati soggetti a scapito di altri”. I turisti più ambiti, ovvero gli attori, i registi, i diplomatici, i grandi manager e gli alti funzionari si tengono comunque ormai ben lontani dai luoghi sovraffollati del Salento, rimangono distanti anche dalle destinazioni costiere più amate della Lecce bene – Santa Caterina sullo Ionio e Castro sull’Adriatico–, così come ignorano la colonia leccese sull’isola greca di Fanò, a un tiro di barca a vela da Tricase. Spiazzando sia i paesani che i leccesi questo ceto internazionale e rarefatto ha scelto per le sue residenze estive la parte un tempo più povera e isolata del Salento: il Capo di Leuca, un tratto di territorio dalla costa alta e rocciosa, naturalmente escludente, che da qualche anno in virtù di un rovesciamento eseguito colpi di masserie finemente ristrutturate, lusso spartano, lino e pietra leccese è diventato il cosiddetto Salentoshire. “Sì, quaggiù siamo come a Cape Cod” spiega con un sorriso timido Edoardo Winspeare, regista di alcuni dei più bei film girati nel Salento e cantore proprio di questo angolo di territorio, anche se le vicende che narra non sono quelle dei ricchi villeggianti ma quelle, più faticose, degli autoctoni, compresi i residenti del paese immaginario di “Disperata” (nella realtà il nome è “Depressa”, facile confondersi).
“All’inizio mi criticavano perché i miei film erano in dialetto, a Lecce mi dicevano che avrei dovuto occuparmi di ambientazioni borghesi, trovavano i miei soggetti provinciali ma Tolstoj o Cechov non parlavano anche di contadini? Jack London non raccontava i cercatori d’oro? Cercavo qualcosa di autentico, sono attratto da quel mondo e per restituire qualcosa di vero devo usare la lingua e le facce del posto”. Discendente di nobili inglesi cattolici che più di tre secoli fa trovarono saggio spostarsi quaggiù per evitare problemi con la loro religione, Winspeare è sposato con una donna di origini contadine che gli ricorda sempre che quando erano bambini lei raccoglieva il tabacco mentre lui andava al mare. Autore di un cinema non solo riuscito ma anche formalmente coraggioso – a partire dalla volontà di usare quando possibile attori non professionisti – le sue opere hanno contribuito a loro volta a mettere i paesi del Salento sulla mappa culturale. Da qui non troppo tempo fa partivano gli autobus per l’Ilva, i contadini facevano gli stagionali per la raccolta di tabacco a Ginosa o per quella della barbabietola in Francia, ora invece per le strade sterrate di campagna si avvistano attori di Hollywood. “Al mio paese i romani e i milanesi sono chiamati forestieri come gli americani o i francesi, ma per i vecchi erano forestieri anche quelli di Brindisi…” Siamo seduti sotto due grandi alberi, un alloro e un ligustro, nel cortile del castello di Tutino, sobborgo di Tricase, dove Winspeare, assieme a un socio che è anche attore dei suoi film, organizza concerti e attività culturali. Autentico gentiluomo dai modi educatissimi, Winspeare parla con voce posata, circostanziata. Appare stanco, non solo per il faugnu ma per l’infinità di attività che organizza in questa sua seconda veste professionale. Il telefono continua a suonare, persone si affacciano per chiedergli pareri e decisioni riguardanti gli eventi. “Presento un’infinità di cose che non mi piacciono, mi chiedono di scrivere prefazioni su temi per i quali in fondo non ho competenza, io lo faccio comunque perché penso che intanto è bene che ci siano piuttosto che non ci siano” .
Con le sue opere Winspeare ha contribuito all’altro filone rilevante della musica salentina: il recupero del tarantismo e della pizzica che è poi sfociato in quell’evento internazionale che è la Notte della Taranta. “Ho avuto un ruolo in questa rinascita, oggi vedo delle guerre intestine attorno a questo tema perché comunque noi salentini siamo bravissimi a farci guerre efferate. Non mi piace quando le cose vengono estremizzate; quando sento dire “simu salentini core presciatu” penso “cittu, cittu (zitto, zitto) che solo qualche anno fa le identità erano di paese, il concetto di Salento era ancora poco diffuso. Non vorrei che diventasse come uno di quegli orgogli per cui solo per il fatto di essere di un posto allora hai delle qualità, come dire sono toscano, romano o napoletano e per questo sono per forza simpatico che è una cosa che mi fa venire la pelle d’oca”. La conversazione va avanti a lungo all’ombra degli alberi, Winspeare spiega che le mura esterne del castello sono di età normanna, esita, poi, prima che il telefono suoni un’altra volta, dice con un sorriso “solo quando faccio film mi sento davvero libero”. Il faccendiere al centro di LSG, Salvatore Petrachi, si spinge da Otranto proprio fino al Capo di Leuca nel tentativo di espandere il suo giro d’affari nel settore turistico ma viene bruscamente richiamato all’ordine dall’avvocato con cui collabora e dal quale spera di ottenere prima o poi l’ingresso nella cerchia ristretta del “Salento che conta”, un comitato d’affari ovviamente leccese Proprio dello stato della capitale vado a parlare con il suo sindaco Carlo Salvemini. É mattina presto per cui il faùgno ancora non ha disteso le sue spire, ciò non toglie che per prima cosa si parli proprio del caldo. “L’altra mattina il sole era viola” racconta Salvemini, completo eclettico a righe bianche e nere, seduta rilassata, a momenti pure con le gambe incrociate, ma ci conosciamo da tempo, prima di diventare sindaco ha anche presentato LSG. Per molti versi Salvemini è una incarnazione piuttosto precisa della borghesia leccese: colto, educato, un po’ formale, con un certo stile anche nel vestire e un che di insondabile che non lo abbandona mai. Saldo nel rifiutare le semplificazioni, in città sono noti i suoi lunghissimi post su Facebook, del tutto avulsi ad ogni contemporaneo dettato di brevità. Pare che di tutte le cose che gli sono capitate da quando è sindaco l’unica che l’abbia fatto davvero arrabbiare sia stato un giornalista di un quotidiano nazionale gli ha attribuito un espressione volgare che lui mai userebbe. Lecce è una città con un patrimonio artistico notevole sia rispetto alla sua grandezza che in assoluto, gli abitanti parlano sovente un italiano forbito oltre che, all’occorrenza, il dialetto.
Lo spirito di un’isola travestita da penisola, il difficile equilibrio fra senso di superiorità e segretissimi dubbi e autoflagellazioni, la storia di un’identità misteriosa e tutti i cortocircuiti della politica. E non solo sulla Xylella
La città di Lecce ha chiese, piazze, musei e anfiteatri ma non sorge sul mare, questo però non toglie che abbia anch’essa la sua quota di turisti illustri, fra i quali un Matt Dillon gran consumatore di pasticiotti nei bar del centro e, un tempo, il fumantino Gerard Depardieu, di cui si ricordano i conflitti con il locale sotto la sua abitazione e con i ristoratori che a suo dire appena annusavano che lui e i suoi amici erano stranieri gonfiavano i prezzi. Salvemini sembra un po’ deluso quando gli dico che ho riletto le pagine di Piovene sulla sua città, ma anche questa voglia di scrollarsi di dosso il passato come fosse sempre il segno di una condizione di minorità è in fondo molto leccese. Piovene aveva in realtà speso parole molto generose nei confronti di questa città colta ed elegante nonostante la distanza – allora ben più pesante di oggi – dal resto d’Italia e d’Europa. In quegli anni Lecce aspirava fortemente ad un’università e oggi, dice Salvemini, “Ne ha tre: l’università del Salento, l’Accademia di Belle Arti e il Conservatorio Tito Schipa”. Altra cosa che a Salvemini sta molto a cuore è il fatto che il centro nonostante il crescente turismo sia ancora abitato da dei residenti e abbia garantiti i servizi di comunità, si eviti insomma l’effetto Venezia, specie ora che sul territorio si moltiplicano gli investimenti di pregio come Palazzo Maresgallo, Palazzo Luce la fondazione di arte moderna Biscozzi-Rimbaud. Quanto al mare, in realtà Lecce come città ne è lontana ma nel territorio comunale ricadono anche delle marine piuttosto misconosciute. Sin dall’inizio uno degli scopi di Salvemini è stato quello di valorizzarle ed è quindi con una certa soddisfazione che racconta di aver appena visionato “alcuni importanti progetti di recupero di masserie in quella zona”. E in fondo è un buon modo per cogliere lo scorrere del tempo questo interesse leccese nella valorizzazione del suo tratto di mare dimenticato, proprio quell’elemento geografico un tempo foriero di minacce ed incertezze da cui il capoluogo si è sempre tenuto prudenzialmente a distanza e che invece nei tempi moderni si è dimostrato un potente volano per il turismo.
Giovanni De Stefano, penna nata e cresciuta nella Lecce bene, ha ironicamente raccontato il disagio dei leccesi non tanto nei confronti dei turisti generici quanto di quelli alto-spendenti, con gusti simili o migliori dei loro e in grado di pagare qualsiasi cifra senza badarci, mettendo così seriamente a repentaglio quell’orgoglio e quella sensazione di superiorità altrimenti facili da coltivare quando il mondo corrisponde al solo territorio del Salento. Ed è proprio in questa difficile ricerca equilibrio fra senso di superiorità e segretissimi dubbi e autoflagellazioni che si muove tanta parte dell’identità del Salento, che sia esso di campagna o di città. Alessandro Valenti, sceneggiatore leccese, racconta come ai suoi corsi i giovani alunni scrivessero solamente storie ambientate a Parigi o negli Stati Uniti, mai nel Salento. Una leccese che la sa lunga e a cui LSG è piaciuto molto mi ha detto che probabilmente il libro non sarebbe stato accolto a livello locale con lo stesso unanime coro di consenso se io fossi stato salentino al 100% e non un figlio di un emigrato cresciuto altrove. Ho visto abbastanza per ritenere che potrebbe anche avere ragione, lo spirito del luogo è caldo, un po’ rissoso – verso l’interno forse persino più che verso l’esterno – ma sempre anche un po’ in cerca di approvazione. È lo spirito di quest’isola travestita da penisola, un luogo che nonostante tutti i suoi problemi e gli errori madornali della politica – Xylella su tutti – continua ad emanare un sorta di magnetismo per molti versi inspiegabile, quantomeno attraverso le categorie della modernità che qui arrivano sempre un po’ corte. Per fortuna però si è finalmente alzata la tramontana, si respira di nuovo.