L'inchiesta
Sul Pio Albergo Trivulzio i pm chiedono l'archiviazione
Mancano il nesso causale e le evidenze specifiche, secondo la procura. I familiari: "Delusi, ma non sorpresi"
La procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell'inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio, storico istituto gerontologico milanese, e del suo ex direttore generale, Giuseppe Calicchio, indagati per la presunta assenza di protezioni individuali che avrebbe determinato nel periodo della prima emergenza Covid (marzo-aprile 2020) un forte numero di morti tra gli anziani ospiti della struttura milanese. Le ipotesi di epidemia colposa e omicidio colposo plurimo non hanno trovato riscontro, secondo i pubblici ministeri. “L’eccesso di mortalità del Pat per Coronavirus si situa in una fascia intermedia rispetto a quanto avvenuto nelle Rsa del milanese”, si legge nella richiesta di archiviazione inoltrata dai pm Mauro Clerici e Francesco de Tommasi (coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano) al giudice per le indagini preliminari. Ora, il gip potrà disporre l’accoglimento o il rigetto della stessa, ordinando nuove indagini.
L’inchiesta della Guardia di Finanza sulla Rsa era partita nell’aprile dello scorso anno partendo da alcune denunce sporte dai famigliari di ospiti (per lo più deceduti) della struttura milanese. Si contestavano irregolarità e mancanze nella gestione dell’emergenza, determinata dalla diffusione del Covid-19. Gli accertamenti, svolti anche con la collaborazione di un collegio di esperti in medicina legale, medicina del lavoro, epidemiologia e infettivologia, hanno riguardato l’esame di circa 400 cartelle cliniche di pazienti ospitati nella struttura nel periodo tra gennaio e aprile 2020. Le morti erano state 321.
“Non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari in ordine alla assistenza prestata”, si legge nella richiesta di archiviazione. “Anzi, con riguardo ai singoli casi, neppure sono state accertate evidenze di carenze specifiche, diverse dalle criticità generali riguardo le misure protettive o di contenimento che possano aver inciso sul contagio dei singoli soggetti”. A mancare è il nesso causale (“Senz’altro da escludere – a detta dei pm – sulle base delle evidenze acquisite”). Non è dunque risultato tracciabile “in termini di significativa certezza il percorso dell’infezione, dall'ingresso nella struttura alla diffusione nei diversi reparti”. Per procedere, occorreva dimostrare che i reati “risultassero riconducibili alla responsabilità dei vertici dell'ente e commessi nell'interesse o a vantaggio dell'ente stesso: presupposti che, all’evidenza, difettano”. E ancora: “Fin verso la fine di marzo, a livello nazionale, e fino ai primi di aprile, a livello lombardo, la verifica mediante tampone era raccomandata solo su pazienti sintomatici in caso di ricovero in ospedale, al fine di riscontro diagnostico, e non ai fini di tracciamento del contagio”, si legge.
Il quadro che emerge dalle relazioni dei consulenti tecnici, tuttavia, non è positivo. Queste, infatti, evidenziano “una carenza oggettiva, rispetto alle necessità di intervento richieste dal diffondersi dell’infezione, delle misure messe in atto dal Pat nel primo periodo dell’epidemia per quanto attiene la distribuzione di dispositivi di protezione individuale adeguati, formazione dei dipendenti, tracciamento del contagio, conseguenti provvedimenti di isolamento e contenimento. L’adozione tempestiva di queste misure avrebbe limitato la diffusione del contagio all'interno del Pat”, secondo la relazione collegiale. Elementi, però, non sufficienti per dimostrare l’accusa di epidemia colposa, data la “notevole variabilità degli eventi di contagio e dei decessi nei diversi reparti del Trivulzio”. Secondo i pm, inoltre, ci sarebbe stata “una certa sottovalutazione iniziale del rischio” da parte della dirigenza della Baggina, “attrezzata in modo piuttosto incongruo” al punto che “nel primo periodo di diffusione dell'epidemia” si sarebbe preoccupata “soprattutto di evitare allarmismi”. Diversamente rispetto a quanto concluso dalla commissione d'inchiesta, inoltre, secondo la procura “ha trovato riscontri la circostanza che la direzione del Trivulzio si fosse opposta, ancora nei primi giorni di marzo, all’utilizzo di mascherine come misura di protezione spontaneamente adottata dal personale di alcuni reparti”.
I familiari delle vittime della Rsa, riuniti nell’Associazione Felicità, hanno commentato così la decisione: “Siamo totalmente amareggiati ma non sorpresi”. Lo dice Alessandro Azzoni, presidente della stessa, con una nota. “Sin da subito, con fiducia, la nostra associazione si è messa a disposizione degli inquirenti, raccogliendo le testimonianze di numerosi familiari dei degenti della struttura e degli operatori sanitari. Non hanno mai dato spazio all’ascolto di nessuno dei 150 firmatari dell’esposto collettivo presentato da noi, abbiamo assistito alla diffusa rimozione della tragedia nell'intento di cancellare il conflitto tra gli interessi dei cittadini direttamente colpiti e i diversi interessi delle parti economiche, politiche e istituzionali a vario titolo coinvolte nella catena di responsabilità e per questo convergenti nell'ignorare la verità attraverso una comune narrazione auto – assolutoria”. Anche Federica Trapletti, della segreteria di Spi Cgil Lombardia, è intervenuta sulla richiesta di archiviazione: “Prendiamo atto e rispettiamo la sentenza, ma continuiamo a pensare che non si è trattato di una fatalità. Crediamo ci siano precise responsabilità politiche, gestionali e organizzative che ci auguriamo emergano quanto prima”.