il foglio del weekend
L'altro Edmond Dantès
Vita, morte e resurrezione di Davide Pecorelli. Dopo avere inscenato il suo suicidio in Albania misteriosamente riappare sull’Isola di Montecristo, alla ricerca del tesoro inventato da Dumas. Lui si definisce un audace. Ecco il suo racconto
Quella dell’imprenditore Davide Pecorelli è l’avventurosa catabasi di un uomo arreso al fallimento, quindi morto e poi misteriosamente ricomparso a distanza di otto mesi mentre navigava su un gommone fra le acque dell’isola di Montecristo, alla ricerca di un fantomatico tesoro che, nei suoi piani, gli avrebbe assicurato il riscatto. “Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po’ di attenzione, a distinguerla dal volto”. In effetti, la vicenda di Pecorelli gioca con l’aforisma di Alexandre Dumas, cantore a sua insaputa di questo poema contemporaneo all’insegna del grottesco, del tragico e del romantico.
Il punto di partenza sta in una frase, una delle poche forse, che Pecorelli decide di confidarci con sincerità autentica, a margine di un copione che invece sembra tanto avvincente quanto già scritto e studiato. Sospira e poi si lascia andare a una confessione: “Si dice spesso, no? I figli e la famiglia sono la cosa più importante. Si dice, ma per me non era così veramente. Per me contavano i soldi, la carriera”. Che sia pure questa parte del romanzo? Che sia la verità? Interessa il giusto, si potrebbe dire, a chi vuole raccontare o a chi invece piace l’idea di immaginare un novello Edmond Dantes, che risorge e passa da vittima a eroe. Capire dove sia la linea di demarcazione fra la fiaba e la realtà riguarda in modo molto più intimo chi invece è stato abbandonato e tradito, i suoi figli e la sua compagna, per mesi in attesa di una parola, di un segno da un padre alla ricerca di rivalsa a ogni costo. Sembra di vederlo, Pecorelli, nell’ultimo atto della vicenda, davanti ai due carabinieri di guardia sull’isola di Montecristo che lo fermano e gli chiedono spiegazioni su cosa stesse facendo lì, dove era vietato anche solo avvicinarsi, a bordo di una barca con un piccone e una mappa. “Sono un geologo. Anzi, no. Cercavo il tesoro dell’isola. E l’ho trovato, per la verità”, risponde candido. È così che inizia il suo racconto.
Davide Pecorelli, quarantacinquenne imprenditore di San Giustino, in provincia di Perugia, è sposato per 22 anni. Ha due figli avuti dal primo matrimonio. Un terzo di 7 anni nasce da una relazione con una donna albanese, iniziata dopo la separazione dalla moglie. Ex arbitro di calcio della sezione di Arezzo, esordisce persino in serie A come IV uomo. Lascia la carriera arbitrale (“il mondo del calcio è marcio, potrei raccontartene a migliaia di storie assurde”, dice oggi) e fonda una squadra di calcio, la Longobarda – “sì, davvero, insieme ad Andrea Roncato”, ride orgoglioso. La squadra ha vita breve, giusto il tempo di partecipare al “Reality Soccer”, programma televisivo in onda nel 2012 su Rete Sole, un’emittente locale, che doveva raccontare l’intera stagione della squadra con tanto di telecamere negli spogliatoi.
Pecorelli, animo inquieto, incarna tanti personaggi sin da subito, da prima che tutto abbia inizio. Istrionico, velatamente narcisista forse, è attratto e affascinato dal denaro, come ammette lui stesso, forse ancora di più dal successo. Cambia tutto e decide di investire 2 milioni di euro nel settore dell’estetica. Lancia anche una linea di prodotti per capelli, di nome Parrucchieri Milano. Ha 45 dipendenti. Siamo a un mese dall’inizio della pandemia e suona quasi come una sentenza. “Ero esposto con le banche per circa 1 milione di euro. Ricordo il giorno in cui ho dovuto licenziare tutti in una volta. È stato terribile, le persone mi chiamavano in lacrime”. Ma Pecorelli non ha scelta e deve vedersela con i creditori. Decide allora di provare a vendere i suoi prodotti in Albania, a Tirana. “Sono partito a settembre 2020, ho iniziato a studiare la lingua e ho aperto un ufficio a Valona”. Ma è un altro fallimento. “Sono sempre stato una persona vitale, ma in quel momento stavo male, ero depresso”. Non era più Davide Pecorelli, e allora ecco che si apre il primo capitolo di una serie di scelte scellerate. Lo ammette oggi, seduto sul divano della casa che era dei suoi genitori, nel piccolo comune di Selci Lama, vicino a Città di Castello. “A distanza di mesi qualcuno mi ha chiesto di definirmi in una parola. Ho risposto: audace. Ma lo sai che significa audace? Significa agire senza pensare ai rischi che si corrono”, ci dice mentre si abbandona a una risata, quasi in un gesto di forzata autocommiserazione.
“Decisi di farla finita”, riprende Pecorelli scegliendo parole già sentite, quasi come se stesse doppiando un eroe sopraffatto in un film americano di seconda serie. Quando parla non disdegna altre locuzioni simili, del tipo “mi hanno beccato” e “non sapevo quale fosse il mio destino”. Con una mano si pettina i capelli lunghi che nella concitazione della risata precedente gli sono scivolati sulla fronte, poi riprende il racconto. “Andai da un frate per confessarmi, a Scutari, nell’entroterra dell’Albania, dopo che avevo già comprato il tubo da collegare all’auto che avevo affittato (“volevo usare il monossido di carbonio”, spiega più nel dettaglio). Era il 5 gennaio 2021. Il prete parlava italiano. Quando gli dissi delle mie intenzioni rimase scioccato. ‘A suicidarti fai sempre in tempo, ma quando decidi non puoi più tornare indietro’, mi disse”. Ecco, l’altro passo verso la dannazione Pecorelli lo compie il giorno successivo, sul crinale di un monte nei pressi di Puke, seguendo le istruzioni del frate. Lì i due inscenano la morte dell’imprenditore. “Ha portato una manciata di ossa umane, erano poche, che aveva preso da un ossario comune, le ha gettate nell’auto insieme al mio orologio Jaguar da mille euro e all’iPhone X che avevo comprato da poco. Dopo aver dato fuoco all’auto la spingemmo giù per il pendio”. La mattina dopo, Pecorelli ha già iniziato una nuova vita, sconfinando in Montenegro e quindi in Bosnia, dove vivrà per i mesi successivi in una comunità cattolica vicino a Medjugorje.
Nel frattempo, le autorità albanesi comunicano a quelle italiane che l’uomo è scomparso e di avere ritrovato i suoi effetti personali nell’auto incendiata. I resti umani al suo interno, invece, non erano stati identificati. Approssimazione e puntiglio si mescolano inspiegabilmente nella messinscena di Pecorelli e del frate misterioso, di cui non ha mai voluto svelare l’identità: “Mi ha salvato la vita, non dirò il suo nome nemmeno sotto tortura”. Alla catabasi corrisponde quello che l’imprenditore di San Giustino definisce “il mio percorso interiore”. “Stavo molto male, non sapevo quale fosse il mio destino. Piangevo tanto, avevo perso 20 chili. Passavo le giornate pregando, pulendo, cucinando. E dire che prima non andavo oltre le uova al tegamino”, dice ridendo e indicando la cucina che sta alla sua destra. “È lì che ho capito il vero senso della vita”. Ma il mondo fuori? E i suoi figli? “Non seguivo le notizie su di me, non avevo internet”. Mentre Pecorelli si dà alla macchia, la procura di Grosseto apre un fascicolo e lo indaga per spaccio internazionale di stupefacenti, attività illecita prediletta a Puke e dintorni. “C’è da ridere”, ci dice, “Pensare che ero indagato per spaccio. Proprio io che nel 2019 avevo denunciato mio figlio perché fumava l’erba”.
Il cammino di redenzione spirituale arriva fino ad aprile, quando è scomparso ormai da tre mesi. “Ero pronto a tornare”. Il capo della comunità dove ha vissuto allora lo convoca e gli fa una proposta: “Mi spiega che è da 60 anni che la comunità si tramanda un segreto. ‘C’è una cosa che è in Italia e che appartiene a noi’, mi dice. Allora tira fuori le mappe”. È con la comparsa di queste mappe, consegnate da un ignoto abate Faria, che sembra di sentire sempre più forte l’eco delle pagine del “Conte di Montecristo”. Pecorelli ci mostra un paio di queste mappe, che tira fuori da una cartellina in cui tiene altri documenti. “Eccola! Questa è l’isola di Montecristo. Qui c’erano i tre forzieri”. Indica un foglio su cui non troviamo una carta nautica, come sarebbe lecito aspettarsi da chi fantasticava un romanzo alla Bernard Moitessier. Invece è un’immagine scaricata da Google, con tre frecce che indicano altrettante cale dell’isola di Montecristo: Cala Maestra, Cala Corfù, Cala Fortezza. “In ciascuna di queste c’era un forziere. Dovevo però addestrarmi e imparare a guidare un gommone a quasi 30 miglia dalla costa. Una follia”. Ma perché proposero una simile impresa proprio a lui? “Non so, forse ero quello che aveva meno da perdere”, risponde Pecorelli. “Mi dissero di andare a Valona, dove avrei preso lezioni da una persona che conoscevano. L’accordo era il 50 per cento del tesoro a loro e il 50 per cento a me. Ci ho pensato e ho accettato”. È così che Davide muore di nuovo e diventa Cristiano, non è più un imprenditore fallito ma uno scrittore, è più magro e si è lasciato crescere i capelli. Una volta a Valona dice a tutti che sta lavorando a un libro, un “restyling” – lo definisce così Pecorelli – guarda caso del “Conte di Montecristo”.
“Raccontavo di avere scelto quel posto per trarre ispirazione dall’isola di Sesano, che sta di fronte a Valona”. Lì Cristiano passa le giornate al mare, conosce nuovi amici: “La mattina ero in spiaggia, il pomeriggio passavo le ore a esercitarmi con il gommone”. Persino le nuove amicizie che stringe in spiaggia non sono mai banali. “Erano i mesi degli Europei, quindi si stava tutti insieme a guardare le partite sui maxi schermi. Così ho conosciuto un giornalista della tv albanese. Pensa che chiedeva sempre se avrebbe potuto intervistarmi una volta finito il mio libro”, ricorda Pecorelli fra le risate comprensibili per un simile ironico nonsenso. Conosce pure un ex calciatore molto noto in Albania, Rrapo Taho. “Mi ha pure invitato qualche volta a giocare a calcetto con lui a Igoumenitsa”.
Cristiano-Davide trascorre 4 mesi quasi spensierati, finché non decide che è pronto all’impresa. È l’11 settembre 2021, quando parte a bordo di un pullman di pellegrini provenienti da Medjugorje e di ritorno in Italia. Il giorno dopo è già a Roma, ma ha bisogno di soldi per la missione. “Nei miei programmi dovevo arrivare a Porto Santo Stefano, poi all’Isola del Giglio e quindi all’Isola di Montecristo. Mi servivano 5-6 notti per recuperare i forzieri. Quindi avevo bisogno di soldi per l’albergo e il viaggio. Ho deciso allora di prelevare al bancomat usando la carta cointestata con la mia compagna. Due prelievi, ciascuno di 250 euro”. Sorpresa! In ogni noir che si rispetti prelevare con il bancomat vuol dire tornare di nuovo in vita: “Avevo troppa necessità del denaro – spiega l’ex imprenditore, finto scrittore e novello avventuriero, nonché ricercato dalla polizia in due paesi – Per prendere tempo ho indossato la maschera di Dalì, quella della ‘Casa di Carta’, in modo che dalle telecamere non si capisse se fossi davvero io a fare i prelievi”. Un coup de théâtre dietro l’altro, arriviamo così a Porto Santo Stefano, di fronte all’Isola del Giglio. “Qui affitto un garage per tre mesi dove avrei dovuto riporre i forzieri una volta recuperati. Pago in contanti e in anticipo”. Due giorni dopo, gli unici due carabinieri a guardia dell’Isola di Montecristo, area protetta e interdetta all’accesso e alla navigazione in un raggio di un chilometro, fermano Pecorelli mentre guida un gommone a ridosso della costa. Dapprima dirà ai militari increduli di essere un geologo: “Sì, per questo ho un piccone. Mi chiamo Giuseppe Mundo”. Davide non è più Cristiano, dunque. Aveva con sé un documento di identità “di una persona che conoscevo e che mi doveva dei soldi quando ero a Selci. Me l’aveva lasciato come garanzia. Ho deciso di cambiare la foto ed ecco fatto”. Poi però cede alle domande dei carabinieri, poco convinti dalla storia della geologia, e alla fine decide di raccontare tutto. “Ho trovato il tesoro dell’Isola di Montecristo, in mezzo agli scogli. Ho visto le monete di due forzieri”. Nel frattempo è trascorsa una notte nella piccola caserma dell’isola. I militari contattano il Viminale e la Farnesina. È l’epilogo.
Il garage affittato da Davide che si spacciava per Cristiano e infine per Giuseppe, suscita parecchio interesse negli inquirenti perché non è mai stato ritrovato, né Pecorelli ha mai voluto rivelarne l’ubicazione. La sua chiave con la targhetta “Garage Porto Santo Stefano” è stata rinvenuta dai carabinieri nella stanza d’albergo che aveva affittato all’Isola del Giglio. Insieme a questa ci sono anche le mappe dell’Isola di Montecristo e – rieccolo! – una copia del romanzo di Dumas, “Il conte di Montecristo”. Siamo in un metaracconto in cui tutto sembra disposto con una sfrontata accuratezza, quasi a comporre un quadro, costringendo la nostra immaginazione a sbirciare in quella camera: le chiavi, le mappe, il libro. Nell’armadio, come non bastasse, viene rinvenuto anche un elenco delle monete che Pecorelli dice di avere trovato a Cala Fortezza e a Cala Corfù e che – dichiara alla procura – voleva consegnare a un numismatico per farle valutare. Ci mostra pure questo inventario, perché tutto sia verificato, tutto sia scritto. Su un foglio è appuntato in stampatello, a penna: “Contabilità cassa Cala Corfù”. “Peso totale chili: 246 kg”. Segue un elenco ordinato in colonne con una lunga serie di numeri. “N. Reperto” e a fianco “N. Pezzo”. E così via in tre fogli, uno per ogni cala. In quello di Cala Fortezza Pecorelli annota: “Totale pezzi contati: 54.782”.
La procura di Grosseto lo indaga ora per sostituzione di persona e ricettazione. Perché il confine fra romanzo e verità non smette nemmeno ora di attorcigliarsi e di farsi più intricato. Nel 2019, dal museo di San Mamiliano a Sovana, vicino Grosseto, vengono rubate 65 monete d’oro risalenti al IV e al V secolo, nell’ultima fase dell’Impero romano d’occidente e la fase nascente dell’Impero romano d’oriente. Il tesoro di San Mamiliano, dall’enorme valore storico, fu scoperto dagli archeologi nel 2004 e si componeva di 500 monete. Secondo la tradizione, San Mamiliano, vescovo di Palermo e custode delle monete, le avrebbe portate con sé sull’Isola di Montecristo, dove morì il 19 ottobre del 460. Finito nei racconti di pirati e corsari e tramandato per secoli, dicono ora gli studiosi che il tesoro è stato cercato da sempre nel luogo sbagliato, cioè sull’isola stessa, fra le rovine del monastero di San Mamiliano. In realtà, spiegano, sono le 500 monete trovate a Sovana il vero tesoro dell’Isola di Montecristo. È così che il nostro Davide Pecorelli si è insinuato fra secoli di leggende e, secondo gli inquirenti, ha cercato di rivendere quelle 65 monete rubate tre anni fa. Tanti dubbi però restano irrisolti. Se anche Pecorelli fosse un impostore, come ipotizza la procura, cosa ci faceva su un gommone al largo dell’Isola di Montecristo? Era una messinscena anche quella? E perché inventare di sana pianta una mole simile di episodi sorprendenti e al limite dell’inverosimile? “Sarebbe davvero machiavellico!”, si risponde Pecorelli con una risata, mentre gli chiediamo di dare un senso a questi 8 mesi inspiegabili, in cui ha toccato il fondo al punto di morire, per poi risorgere e cambiare tre vite e riaffiorare dal nulla, su una spiaggia dall’altra parte del Mediterraneo.
Ora si dedica alla famiglia, ai figli finalmente. “Passo molto tempo con loro”. Ma quando gli ha raccontato tutto quello che è successo, come hanno reagito? “I maschietti hanno capito, mentre mia figlia ci ha messo un po’ di più. La mia compagna invece sta cominciando a riprendersi solo adesso dallo choc”. È consapevole che da un momento all’altro qualcuno potrebbe suonare alla porta e chiedergli conto di tutto quello che è successo. A cominciare dalla polizia albanese, che lo indaga per la messinscena della sua morte a Puke e che ha già chiesto l’estradizione. “Sono pronto ad assumermi le mie responsabilità – dice – e sono pronto anche ad andare in carcere in Albania, eventualmente”. In questa nuova vita, Pecorelli ha trovato lavoro come dipendente nel settore ricettivo e sta mettendo in piedi un’associazione. Per rendere giustizia alla sua stessa storia, l’ha chiamata Associazione il tesoro di Montecristo: il tesoro è la vita. “Si occuperà di aiutare tutti quegli imprenditori che sono finiti in difficoltà economiche come me – spiega – Perché è assurdo che per i dipendenti ci sia la cassa integrazione ma per i dirigenti d’azienda invece non ci sia nulla. La presenterò in pompa magna, ci saranno sorprese, vedrete. Ho già ricevuto molte manifestazioni d’interesse concrete, anche da imprenditori importanti che vogliono aiutarmi. Ho scelto il 6 gennaio per presentarla a tutti, l’anniversario della mia morte”. Ecco che allora il cerchio si chiude. Ma lei – gli chiediamo finalmente – l’ha mai letto il romanzo di Dumas? “No”, risponde. “Cioè, solo dopo che è successo tutto. E devo ammettere che…”. Risate. Giù il sipario.