Addio “signor Nino” Cerruti, antesignano di tutti gli agender chic
I film (anche in cammeo), il lancio del color ottanio con Agnelli, i pantaloni per Coco Chanel, la scoperta di Giorgio Armani. A 91, muore il rivoluzionario della moda italiana. Che fece un solo grande errore: cedere a Fin.Part
Nino Cerruti in tre immagini e tre momenti. Il color ottanio, inventato più o meno su commissione della Fiat e lanciato a Roma negli Anni Sessanta con grande spolvero di belle donne a partire da quella cara al cuore dell’Avvocato, Anita Ekberg (in questi giorni, le sfilate uomo di Milano sono tinte di questo colore a metà fra il verde e il blu, dev’essere un segno). E ancora, i pantaloni realizzati per Coco Chanel, che preferiva i suoi a quelli di chiunque altro, se stessa compresa. Quindi, come dimenticarli, i trench di Lauren Hutton in American Gigolo, che facevano un bellissimo contrasto con i completi color fango e salvia di Richard Gere disegnati del suo allievo più celebre, Giorgio Armani.
Volendo, ci sarebbe anche un quarto aneddoto per ricordare Cerruti, morto sabato 15 gennaio a 91 anni all’ospedale di Vercelli dove era ricoverato, a pochi chilometri dal celeberrimo lanificio di famiglia, a Biella: il vezzo di farsi chiamare da tutti “il signor Nino”. Armani, che pochissimi chiamano Giorgio, e tutti “il signor Armani”, deve aver modellato anche questa piccola civetteria da quell’uomo altissimo, dai modi imperiosi ma anche sorprendentemente gentili: d’altronde, come si diceva nelle famiglie perbene di un tempo, di dottori è pieno il mondo, di signori no.
Dunque, addio signor Nino: “Da lui ho appreso non solo il gusto della morbidezza sartoriale, ma anche l’importanza di una visione a tutto tondo, come stilista e come imprenditore”, ha scritto Armani pochi minuti fa sul suio profilo Instagram: “Aveva uno sguardo acuto, una curiosità vera, la capacità di osare”. Aveva anche uno stile personale inimitabile. L’ultima volta che ci parlammo, circa un anno fa (“conosci per caso Nino Cerruti?”, mi domandarono da una redazione importante ma composta di giovanissimi, che non osavano scomodare il mostro sacro), indossava ancora le camicie avvolte sul corpo come Audrey Hepburn. Il signor Nino non le abbottonava: ne sovrapponeva i lembi, li infilava nei pantaloni, li stringeva con la cintura, quindi vi sovrapponeva una giacca, un maglione, quel che gli garbava in quel momento. L’effetto era leggermente distonico, dunque attraente per l’occhio, che tende ad annoiarsi per l’eccessiva simmetria: “Lo stile è equilibrio, con un colpo di teatro”, osservò compiaciuto.
Fu lui, e nessun altro, il primo stilista a destrutturare l’abito formale e a portare la sovrapposizione del genere vestimentario alle masse (per intenderci: già Orry Kelly vestiva Marlene Dietrich in giacca, cravatta e pantaloni con le pinces negli Anni Trenta del Novecento, ma è stato difficile vedere donne in tailleur pantalone fino a tutti i Settanta e molto grazie a Cerruti). Detestava gli abiti aderenti al corpo, che non lo accompagnano nei movimenti e ne accarezzano i pensieri. Quelli soprattutto, i pensieri, che per lui dovevano fluire liberi, senza preclusioni nemmeno nell’abito: la metà dei quarantenni che adesso vanno per la maggiore con l’agender forse nemmeno sanno quanto debbano al signor Nino.
Era fluido prima che il termine diventasse di moda, ma detestava la sciatteria. Le tute ubique del primo lockdown furono argomento di precisazione: “Il diritto di essere confortevoli ha un limite, ma anche un paio di pantaloni della tuta possono essere eleganti, magari indossati con un certo maglione: tutto dipende da chi li porta e da come si armonizzano con la sua personalità”.
Avrebbe voluto insegnare filosofia. Invece, la scomparsa prematura del padre lo costrinse a occuparsi del lanificio di famiglia: Cerruti, ufficialmente nata nel 1881, in realtà esistente alla voce “arti et negotij” degli archivi comunali di Biella già alla metà del Settecento. Aveva comunque la stoffa dell’imprenditore, e si vide subito, nel 1957, con la nascita della prima fabbrica di pret-à-porter elegante da uomo, la Hitman. Alla fine degli Anni Sessanta, apriva la prima boutique di Parigi, a pochi passi dalla rue Cambon dove lo riceveva la terribile mademoiselle “anziana ma ancora molto sexy”: gli spazi erano stati disegnati da Vico Magistretti, suo grande cliente. Le donne in pantaloni, le donne “in abbigliamento maschile”, come si diceva quando questa definizione aveva ancora un senso, hanno continuato a essere le sue preferite.
Come ovvio, metteva ogni attenzione nella scelta del tessuto. “E’ come un quadro”, diceva: “Da lontano sembra una tinta unita ma da vicino si scoprono tutti i giochi di intrecci e i colori che lo compongono”, e aggiungeva: “Lo sa che in Estremo Oriente i tessuti sono la prima espressione d'arte?”. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi lo nominò cavaliere del lavoro nel Duemila. Credo che gli sarebbe piaciuta di più la nomina a tesoro nazionale, che in Giappone è qualifica riservata ai grandissimi artisti del bello, in qualunque forma esso si esprima. Per lui, il bello era la “nobile arte” del filo, della tessitura e delle sue infinite possibilità di trasformarsi in racconto della persona, della sua storia. Alla tecnica tessile, la narrativa e il cinema devono molto del proprio lessico: la trama, l’ordito, il filo, l’avere stoffa, e ancora i ruoli “cuciti addosso”, che per il signor Nino erano un fatto reale, replicato in decine di film da costumista e tre interpretati nel ruolo di se stesso, in cammeo.
Degli attori amava dire cose leggere e gradevoli, per esempio che “vivendo fra la fantasia e la realtà trasferiscono sensazioni molto interessanti e stimolanti”, ma è un fatto che, oltre ad aver stretto amicizia con Jack Nicholson, che nel 1995 vestì con decine di completi neri per “The crossing guard – tre giorni per la verità” (“aprii la fabbrica di notte perché voleva tutto pronto in una settimana”), Cerruti avesse affrontato il cinema con la serietà di un Piero Gherardi, cioè leggendo le sceneggiature, osservando le scenografie, immaginando il personaggio oltre la maschera: “Il gioiello del Nilo”, Richard Gere in Pretty Woman, Michael Douglas in Basic Instinct, e ancora Anthony Hopkins ne Il silenzio degli Innocenti. L’abito come parte di un tutto ed espressione di un modo di essere che necessita del carattere di un uomo per attivarsi come forza ed energia. L’essenza del made in Italy è questa, diceva, ed ebbe modo di scoprirlo appena trentenne quando lanciò appunto il color ottanio con il sostegno dell’industria dell’auto. Un libro sulla storia del settore (“1770. The Bianchi, the forge, the steel”, 2014) ricorda così l’episodio: “fashion shows runways featured grand trendsetters like Nino Cerruti and Anita Ekberg launching Ottanio, or petroleum blue”. Non si trattò di una sfilata, ma di una grande presentazione a Roma: lungo i Fori e nei luoghi più suggestivi di Roma sfilarono venti Lancia “custom made”, e da una di queste scese la Ekberg, fresca del successo della Dolce Vita, in un abito color ottanio che Nino Cerruti aveva disegnato per lei. In quell’occasione,
Cerruti comprese il potere della comunicazione trasversale e della messa a sistema delle tante eccellenze italiane. Fece due errori: rifiutò di vendere a Bernard Arnault, nei primi Anni Novanta (“arrivò troppo presto, quando ancora ero impegnato a tempo pieno), e fece invece società con Gianluigi Facchini e la Fin.Part. Un colossale abbaglio: sull’ormai celebre “bond Cerruti” da 200 milioni di euro, nel 2004 andò a rotoli il sogno di costituire il primo polo del lusso italiano, che poi nessuno ha mai portato davvero a compimento.
Il Lanificio Cerruti ora fa parte del fondo anglo-londinese Njord Partner; il signor Nino ne conservava una quota del 20 per cento e la carica di vicepresidente. Il figlio Silvio lo affiancava già da molti anni nell’operatività. “La moda attrae molto sovente industrie o figure che non godono della sua stessa capacità di seduzione e moltiplicazione positiva di immagine,” mi disse, prima di chiudere l’incontro: “Ma è un animale che va accarezzato per il verso del pelo. Per conquistarlo non basta averlo comprato. Non bastano i soldi”.