Ucraini in fuga dalla guerra, a Medyka, Polonia (LaPresse)

A Roma

La strana coppia. Cinquanta profughi in salvo grazie a un prete e a un manager

Marco Lodoli

La chiesa di Santa Sofia e una università ipermoderna, nella Capitale, unite nell’accoglienza agli ucraini in fuga dalle bombe di Putin

Le strane coppie funzionano sempre bene, forse perché tra poli opposti passa una scarica di energia che accende i motori della fantasia. Il ciccione e lo smilzo, l’Augusto e il Clown bianco, l’elegante uomo d’affari e la donna da marciapiede, lo sbruffone con la spider e lo studentello timido e impacciato, sono infinite le coppie che sembrano trovarsi insieme per caso, e invece sono unite da una necessità invisibile, come lo jing e lo jang. Al lunghissimo elenco ora possiamo aggiungere anche l’università telematica UniCusano e la chiesa di Santa Sofia, due mondi apparentemente lontanissimi e invece oggi uniti nell’accoglienza dei profughi ucraini.
 

Il caso o la necessità li ha sistemati a poche centinaia di metri, tra via Don Gnocchi e la Boccea, a Roma, ma forse avrebbero potuto ignorarsi per i secoli dei secoli, se non fosse capitata la tragedia della guerra e il conseguente esodo di centinaia di migliaia di persone. Ora la collaborazione è strettissima, la chiesa cattolica ma di rito ortodosso, punto di riferimento della comunità ucraina romana, si sta facendo in quattro per dare ospitalità alle famiglie ucraine in fuga dalle bombe russe, e ha trovato stanze e cibo per loro nella modernissima struttura dell’università privata che le sta accanto. A vederla da fuori, ma anche da dentro, quasi non sembra un’università, non c’è quel clima sbracato e vitale tipico delle università italiane, quel viavai caotico e rumoroso di studenti che si vede alla Sapienza o Roma tre. All’ingresso ci sono tre vigilantes, uno addirittura imbraccia un fucilone guerriero, e un portiere gentile che chiede il green pass e i documenti, e poi mi indirizza verso un edificio in cima a una salita. Attorno, prati all’inglese, statue di bronzo di cinghiali e oche, ma anche strane e immense maschere carnevalizie, e un silenzio inespugnabile. Sembra quasi la sede centrale di una grande banca d’affari, o uno di quegli ospedali che troviamo nelle serie televisive americane. 


Tutto è perfettamente funzionale, pulito, anodino, vialetti e cartelli d’indicazione, quiete protetta, un’atmosfera di benessere danaroso, e un altro vigilante con lo schioppo. Qui si offre soprattutto studio a distanza, ci si iscrive da qualsiasi parte d’Italia e si seguono le lezioni dal proprio computer, a casa. Però le lezioni sono in diretta, e chi vuole può anche seguire i professori in presenza, in aule reali. In una seconda portineria un giovane mi aspetta e mi accompagna attraverso lunghi corridoi, mi spiega quali facoltà ci sono, quasi tutte, e l’unico rumore sono le nostre parole e i nostri passi. Ecco, arrivo nell’ufficio del dottor Ranucci, vice presidente del cda, come sta scritto sul suo biglietto da visita: grande scrivania, grandi vetrate, una segretaria gentile e graziosa, con il tailleur e i tacchi. Dopo di me è attesa una troupe del TG5, che sta già all’ingresso. Il dottor Ranucci, elegante e affabile, le cifre del nome ricamate sulla camicia bianca, mi racconta che attualmente l’università ospita una quarantina di ucraini, ma ne arriveranno a breve almeno altri trenta.

 

Li ospitano nelle camere della foresteria, o dello studentato, come si diceva una volta, proprio perché don Marco della chiesa di Santa Sofia ha chiesto un aiuto. Se si pensa che a Londra sono state accettate solo trecento domande di ingresso degli esuli ucraini, trecento su 18.000, viene naturale ammirare la generosità di questa università privata romana. Gli ospiti sono quasi solo donne e bambini, mi racconta il dottor Ranucci, solo tre uomini, perché il governo ucraino trattiene i possibili combattenti. Sono arrivati con bagagli minimi, perché la fuga è stata precipitosa e il viaggio complicatissimo, ogni peso in più poteva essere un ostacolo. Non posso fare a meno di porre una domanda che mi frulla nella testa: io associo questo tipo di università a un’idea di lontananza, a quel tipo di insegnamento online che sembra avvenire in un clima sospeso, quasi astratto, teso a preparare e laureare senza troppi problemi studenti che tra loro non si conoscono, che pagano e frequentano le lezioni tramite computer…

 

E adesso invece l’UniCusano è in prima linea nell’accoglienza, offre le sue camere, la sua mensa, compra vestiti e biancheria a chi è arrivato dalla catastrofe senza nulla: come mai? Il ciccione e lo smilzo, lo sbruffone e il timido, la chiesa di Santa Sofia e l’università ipermoderna, la risposta è tutta lì, nella misteriosa attrazione tra gli opposti, nell’intesa quasi inesplicabile tra universi paralleli. Il dottor Ranucci e la segretaria mi accompagnano verso l’uscita: stavolta lungo i corridoi incrocio alcune famiglie ucraine che stanno tornando dal pranzo, bambini silenziosi, donne giovani e preoccupate, che fino a pochi giorni fa vivevano a Odessa o a Kiev, e ora sono qui, sulla Boccea, in un posto che non avevano mai neppure immaginato. Sono salvi anche grazie al ciccione e allo smilzo, al prete di Santa Sofia e al manager dell’UniCusano, alle strane coppie che si formano nella vita e che d’improvviso producono energia e speranza.

 

Pensiamo di capire tutto e non capiamo niente. Abbiamo mille pregiudizi e invece la vita è imprevedibile, nell’orrore come nella meraviglia. Le cose accadono, si sfasciano, si ricompongono secondo itinerari che non sono tracciati su nessuna carta. L’importante è mantenersi aperti, conservare un po’ di fiducia nel genere umano, nella capacità di incontro tra entità diversissime, tra l’incenso di un rito ortodosso e un prato all’inglese, tra un’icona e un computer, tra una domanda d’aiuto e una risposta generosa.
 

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