Mino Raiola è morto, ma resterà l'agente del calcio più famoso al mondo
Il procuratore era malato da tempo. Attorno a lui gli equivoci hanno sempre prosperato ed è stato così anche sulla sua morte, data per certa in anticipo. Oggi l'annuncio della famiglia
Quando si scrive e/o si dice male dei procuratori dei calciatori, quando si rinfaccia alla categoria di zavorrare i bilanci dei club con percentuali da usura, quando si accusano questi signori (e qualche signora, ci mancherebbe) di alto tradimento, reato poi contestato anche ai loro assistiti, perché ammainano le bandiere e lucrano sui trasferimenti, il primo nome che si faceva, si fa e si farà ancora è il suo, Mino Raiola, nato Carmine il 4 novembre del 1967 a Nocera Inferiore. Quindi non aveva ancora cinquantacinque anni, ora che ha lasciato il mondo in generale e quello del calcio in particolare.
Degli agenti non era né il più spietato e neanche il più ricco: secondo Forbes era al quarto posto con un fatturato di 84,7 milioni di dollari. Però "bucava" mediaticamente più dei colleghi in grisaglia e doppiopetto firmato. Colpa dell'aspetto. La più calzante descrizione, per capirci, ha il copyright di Evelina Christillin che lo incontrò al tradizionale pranzo agostano di Adriano Galliani a Forte dei Marmi: "Un simpaticissimo incrocio tra Peter Clemenza (il sottopancia del Padrino, ndr), Mario Merola e il senatore De Gregorio". Attorno a lui, grazie alla diffidenza di cui al punto uno (il procuratore-squalo), gli equivoci hanno prosperato. Sia sulla morte, data per certa in anticipo sui tempi, sia sulla sua vita. Un esempio: le origini da pizzaiolo. Lui rispondeva, per certificare che non disprezzava nessun mestiere: "Cameriere non pizzaiolo". In realtà non era stato né l'uno, né l'altro. Forse avrà fatto qualche servizio, nel ristorante di famiglia ad Haarlem, ma in realtà si occupava di rapporti, di mediazioni, fin da allora. Cominciò a interloquire con i clienti, trattò ristoranti, è diventato ricco intrattenendo club e calciatori.
La verità è che siamo tremendamente snob, specialmente tra i giornalisti, e siccome Mino Raiola andava a firmare i contratti in bermuda, camicia hawaiana e infradito (nella sessione estiva), o con un felpa da rapper con i primi freddi, ecco il giudizio negativo. Per dire, nel suo curriculum c'erano maturità classica, due anni di giurisprudenza e sette lingue. Quella che parlava peggio era la nostra: come in tante famiglie di emigranti (aveva lasciato l'Italia a un anno) in casa non si parlava l'italiano ma il dialetto. Però si faceva capire, come quando definì l'hotel milanese dove si svolgeva il calcio mercato "di merda", o quando diede del demente a Platini o suggerì un TSO per Guardiola che aveva fatto spendere al Barcellona 75 milioni per Ibrahimovic e poi lo mandò via.
Ecco, oltre la schiuma dell'iconografia e del luogo comune, c'era un grande attaccamento ai suoi giocatori. Non si batteva solo per i soldi. Voleva che avessero successo, come insegnò a un giovinastro che veniva dal ghetto e che ora lo chiama "padre", Zlatan Ibrahimovic. Ma anche gli altri da Nedved ad Haaland, da Donnarumma a Verratti, da Pogba a De Ligt, erano figli suoi. Alla fine tutti seguivano i suoi consigli. L'unico che si ribellò fu Pavel Nedved che a Torino divenne più juventino degli Agnelli. Così, quando Raiola gli imbandì il trasferimento monstre di fine carriera a Milano da Mourinho nell'anno (2009-2010) del Triplete interista, Pavel preferì mollare. Agli atti che, pure in questa operazione, Carmine detto Mino aveva visto lungo.