Narrazioni da combattere: la montagna che si vendica dell'uomo
Il racconto di una terra vendicativa serve solo ad additare possibili colpevoli, a dimenticarci del rispetto e di quel silenzio necessario intorno al luogo dove un ghiacciaio si è preso delle persone e chissà se le restituirà
Amo la montagna, da sempre. Non sono un’alpinista né un’eremita. La montagna rappresenta ai miei occhi qualcosa di ideale. E’ purezza, è ascensione (fisica, etica, morale, umana): l’idea che si possa superare i limiti nel rispetto delle proprie forze e di quello che ci circonda. La montagna è il gigante che ci riconsegna alle nostre proporzioni e spegne l’hýbris. Ci protegge con severità, l’ho sempre pensata così: ci protegge da noi stessi, soprattutto. Andare in un cimitero di montagna è un’esperienza preziosa e commovente: di solito si tratta di piccoli campi santi raccolti intono a una chiesa. Lì troverete le tombe delle persone che sono vissute in quei luoghi: molte di loro sono alpinisti o alpiniste. Su alcune lapidi si legge “preso dalla montagna il giorno x”. In alcuni casi è stato aggiunto “restituito dalla montagna il giorno y”, come se tra il preso e il restituito ci fosse un’interruzione temporale, una sospensione della morte. Eppure, nel suo prendere e restituire, nessuno ad alta quota vede la montagna come un mostro. C’è rispetto reciproco. E’ per questo che non mi convince il racconto affrettato di una montagna che si vendica dell’uomo, dell’inquinamento, delle sue responsabilità ambientali.
Su una catena diversa dalle Dolomiti, sul Monte Rosa, vive una comunità di lingua tedesca, è la comunità walser. I walser arrivarono dal Vallese nel XIII secolo passando un’intera catena montuosa perché nevi e ghiacciai, a quei tempi, erano praticamente sciolti. Pensavano, i walser, che oltre le cime di roccia ci fosse un eden fatto di prati, bestiame, forme di formaggio rotolanti. Il racconto di una terra vendicativa serve solo ad additare possibili colpevoli e a dimenticarci del rispetto. Il rispetto così necessario in tempi dove i toni non fanno che alzarsi senza sosta; il rispetto così necessario in montagna. L’immagine dell’occhio commosso del ghiacciaio della Marmolada mi colpisce di meno delle immagini del parcheggio da dove sono partiti gli escursionisti. C’è una Dacia con una targa della Repubblica Ceca, una C3 con un adesivo della Val di Fassa, un’utilitaria romena, un furgoncino blu… Le macchine mai reclamate se ne stanno lì come le lapidi di un cimitero di montagna. Il rispetto prevede che si faccia silenzio intorno al luogo dove un ghiacciaio si è preso delle persone e chissà se le restituirà. Il rispetto prevede che se proprio si vuole salire in montagna si sappia come e dove farlo, e si vada da un’altra parte, non ci si ostini in quegli stessi luoghi (come fin da questa mattina pare che stia accadendo), quasi che per un calcolo di probabilità, ora, ai gitanti sulla Marmolada non possa succedere niente. Li chiamo gitanti perché, senza rispetto, non si è degni di essere nominati escursionisti. Tanto meno alpinisti.