Come non amare i collettivi studenteschi, che occupano le facoltà ma onorano il ponte di Ognissanti

Andrea Minuz

Gli studenti antifascisti, anticapitalisti, antirazzisti e transfemministi alzano il livello dello scontro. Poi però si fermano e si danno appuntamento dopo il lungo weekend di Tutti i santi. Una maschera arcitaliana struggente che sarebbe piaciuta molto a Longanesi e Flaiano

Sarebbero di sicuro piaciuti molto a Longanesi e Flaiano questi studenti antifascisti, anticapitalisti, antirazzisti e transfemministi che alzano il livello dello scontro, occupano la facoltà, poi però si fermano per il ponte e si danno appuntamento dopo il lungo weekend di Ognissanti. Si tornerà sulle barricate più freschi e riposati. Antagonisti rovinati dal climate change, da questo autunno che doveva essere “caldo” ma che ora sa proprio d’estate, mette una gran voglia di spago con le vongole a Ostia e scompagina tutto il calendario di proteste, flash mob, sit-in.

 

Come si fa a non amarli questi studenti dei collettivi? Sono una maschera arcitaliana struggente, malinconica, old fashioned. Sono parte del nostro album di famiglia da oltre cinquant’anni, immortalati in “Paese senza” di Arbasino o nelle pagine di Tom Wolfe che li osservava alla fine dei Settanta (“gli studenti italiani conducevano durante le ore diurne un’esistenza piuttosto sfrenata. Militavano in organizzazioni estremiste e si erano accanitamente scontrati con la polizia, sulle barricate, nel senso letterale del termine. Però alle venti e trenta in punto tornavano a casa, si lavavano ubbidientemente le mani prima di cenare con mamma e papà”).

 

Del resto, non dev’essere facile neanche per loro. Sentono il peso, la responsabilità, l’obbligo dell’antifascismo, ma anche il dovere di onorare le feste. Si agitano e si danno un gran da fare “per un’università anticapitalista e antifascista”, ma i loro slogan e striscioni sono incorniciati nelle strutture fascistissime e solenni dell’architetto prediletto del Duce, Marcello Piacentini. Ora poi, coi fascisti al governo, hanno un’agenda fittissima. Gli impegni si accavallano. Non è facile essere contro il fascismo e il Patto atlantico e tenere il passo con l’agenda globale della lotta. C’è la tradizione da portare avanti ma anche l’obbligo di aggiornarsi, il piede nel passato e “lo sguardo dritto e aperto nel futuro” e fuori dalla Nato. Le sigle dei collettivi sanno di soviet e operaismo (“Cambiare rotta”, “Organizzazione Giovanile Comunista del collettivo di Scienze Politiche”, “Fronte della Gioventù Comunista”). Ma ecco il disperato tentativo d’ammodernamento con “l’aperitivo antifascista”, indetto venerdì scorso, primo atto celebrativo della protesta (a seguire, “happy our antagonista”, “degustazione anticapitalista”, “verticale intersoggettiva di Sauvignon non binario”, più minestrone sociale).

  

In un possibile remake di “Un americano a Roma”, il Nando Moriconi immortalato da Alberto Sordi diventa così uno sfrenato attivista della Social Justice. Un antifascista woke iscritto fuori corso alla Sapienza, ma convinto di stare nei campus di Yale o Stanford. Strenuo difensore delle minoranze in ogni loro intersezionalità, s’inginocchia per il Black Lives Matter, marcia con il collettivo di separatiste lesbiche fuorisede, segue un seminario di “fat studies”, con la parmigiana della mamma nel portapranzo. Non è ossessionato dai film o dalle serie americane, ma dal privilegio, dal patriarcato, dal potere nelle sue ramificazioni “microfisiche”, come gli hanno spiegato in un corso su “Foucault e l’alterità della differenza”. Il suo nemico non è il “maccarone”, ma il maschio bianco, eterosessuale, cisgender, abile, neurotipico. Sente insomma sulle spalle, ogni giorno, tutto il peso del maestoso edificio della discriminazione e dell’oppressione costruito dai suoi avi. E la sera, quando è stanco, pensa con un po’ di invidia a quelli prima di lui. A quelli del ’68, del ’77, persino quelli della Pantera, cui bastava prendersela coi fascisti e le “privatizzazioni”, senza neanche fingere di sapere l’inglese.