CALAMITà PREVEDIBILI
I mezzi per monitorare le frane come quella di Ischia ci sono, basta saperli usare
Una soluzione è il telerilevamento, da combinare con le piattaforme più appropriate. Nella prevenzione pratica, però, molti dati restano inutilizzati perché non vengono trasformati in informazioni comprensibili
Proseguo nella linea del mio contributo del 3 dicembre, nel quale facevo riflessioni sulla catastrofe idrogeologica che ha colpito Casamicciola. Ho scritto che il Nowcasting, procedura di previsione meteo specializzata per le ore immediatamente successive – e che si avvale delle osservazioni al radar meteorologico, dei sensori satellitari e dell’analisi dei dati meteorologici convenzionali – può portare a un’allerta alla popolazione che sia efficace e convinca le persone in pericolo a trasferirsi in tempo in zona di sicurezza. Ma ci si può chiedere anche, nel caso appunto di land slides, frane o colate di fango, se non ci sia la possibilità di osservare un qualche piccolissimo movimento del terreno che preceda il rovinoso scivolamento, prima che diventi distruttivo e inarrestabile. Se ci fossero tecniche di rilevamento di questi minimi movimenti troverebbero applicazione anche in eventi di terremoti, valanghe o eruzioni vulcaniche. Pensiamo al bacino della diga del Vajont: se avessimo avuto un sistema del genere collocato sul versante di fronte al monte Toc che avesse segnalato in tempo il primo minimo distacco. Ebbene sì, in anni recenti si sono avuti progressi enormi in questa direzione. Si tratta dei cosiddetti metodi interferometrici.
Ma prima qualche pillola di telerilevamento. Ogni oggetto emette, assorbe e riflette radiazione elettromagnetica. I sensori passivi captano la radiazione che gli oggetti stessi riflettono o emettono e che proviene normalmente dal Sole (direttamente o indirettamente). Le leggi della radiazione sono tre, importantissime, e le racconteremo in futuro, per chi al liceo giocava alle battaglie navali invece di stare attento alle lezioni di fisica. I sensori attivi, invece, provvedono a generare la radiazione essi stessi, col grande vantaggio che possono così ricevere un segnale dagli oggetti ogni minuto, senza aspettare che sia giorno, che non ci sia nube o nebbia, o che la stagione sia opportuna. Sono sistemi radar e richiedono la generazione di grandi quantità di energia per “illuminare” adeguatamente l’oggetto o la superficie, e avere quindi un segnale di ritorno significativo.
Poi c’è da parlare di piattaforme, dove cioè piazzare i sensori, sia attivi che passivi: su satelliti (geostazionari o polari), su aerei, palloni, elicotteri, droni o semplicemente al suolo. E qui comincia il regno del compromesso: risoluzione spaziale del sensore, ricorrenza temporale dell’acquisizione sensoristica e dimensioni geografiche dell’area da monitorare. Un compromesso da trovare a seconda delle esigenze (agricoltura intelligente, monitoraggio degli abusi edilizi, uso del suolo, gestione del rischio meteorologico, etc). Il satellite geostazionario, ad esempio, collocato a 42 mila chilometri dal centro della Terra, guarda sempre lo stesso disco del pianeta, e può fornire frequentemente le sue immagini, anche ogni 15 minuti, ma la risoluzione spaziale sarà scadente; darà quindi un’informazione mediata, tipicamente, su un’area di 4x4 chilometri quadrati. I satelliti polari ospiteranno dei sensori con una risoluzione spaziale superiore, ma prima di passare sullo stesso luogo geografico (si chiama rivisitazione) passeranno anche parecchi giorni, tipicamente più di venti. Un drone potrà ospitare sensori con risoluzione di 30 centimetri, ma solo per l’area (swath) che riesce a spazzare sotto di lui. E così via. Naturalmente, c’è anche la scelta di quale intervallo di frequenza esplorare, nel vasto spettro delle onde elettromagnetiche.
Avete già capito dal mio precedente articolo che la mia specializzazione è nella radarmeteorologia dei sistemi precipitanti in banda S, C, X, Ka, e che preferisco stare entro le nubi e le precipitazioni. Ma non vi deluderò, ci ritorneremo ancora in futuro sull’acqua nell’atmosfera, nelle nubi e prima che tocchi il suolo.
Ma per essere ben aggiornato sui metodi interferometrici nei movimenti del terreno, cerco io stesso di saperne di più, e venendo alla domanda iniziale sui monitoraggio dei minimi spostamenti del terreno imparo che si usano ora applicazioni del radar ad apertura sintetica (Sar) con i sensori Esa Sar su piattaforma satellitari Sentinel 1-A e 1-B. Nell’interferometria Sar due antenne separate da piccola distanza possono acquisire, a intervalli temporali diversi, due immagini radar bidimensionali dello scenario irradiato a partire dalle quali, misurando la differenza di fase dei singoli pixel (il sostantivo pixel è la contrazione dell’espressione inglese “picture element”) è possibile calcolare gli spostamenti spaziali, orizzontali e verticali, subìti dallo scenario irradiato in corrispondenza di ciascun pixel. Le antenne possono essere montate sulla stessa piattaforma oppure si può ottenere il dato interferometrico da due passaggi distinti della stessa piattaforma. Altra famiglia di strumenti utili per l’osservazione della superficie terrestre è quella delle fotocamere ottiche, quali i sensori Esa-Msi (Multi spectral imager) montato sulle piattaforme satellitari Sentinel-2A e 2-B.
Come già accennato in precedenza, nel processo di osservazione della superficie terrestre un sensore di immagini Sar ha due principali vantaggi rispetto ai sensori di immagini ottiche. Primo, un sensore Sar può essere attivato tanto di giorno che di notte, poiché non sfrutta l’illuminazione solare. Secondo, è insensibile alla presenza di copertura nuvolosa e di nebbia. Pertanto, l’interferometria Sar può giocare un ruolo importante nel monitoraggio di frane anche di notte e in presenza di condizioni atmosferiche avverse.
Viene spontanea la domanda sull’uso di questa metodologia avanzata all’interno della Protezione civile. Questa mia semplice domanda apre un vaso di Pandora, non solo sulla Protezione civile ma anche su altre istituzioni che dovrebbero operare nel domino applicativo dell’osservazione della terra quali l’Agenzia spaziale italiana (Asi), ovviamente, e Ispra e Arpa ER. Per operare con efficacia in questo campo multidisciplinare sarebbe richiesta a queste istituzioni pubbliche una capacità progettuale di alto livello, specialmente ora, in una fase storica nella quale si prospettano investimenti mai visti del Pnrr.
Tutto questo in un settore, detto della Space Economy 4.0 o aero-spazio, nel quale aziende private si impongono sempre più, operando in alternativa e/o in collaborazione con operatori tradizionali di natura istituzionale. Di fatto il mercato privato sta costringendo sempre più gli enti spaziali nazionali e interazionali e le istituzioni pubbliche a fare i conti con le esigenze più concrete del mondo reale, quali appunto la gestione dei rischi meteorologici e delle calamità naturali.
Il quadro generale nel quale ci si muove è di un contrasto ormai consolidato fra produttori di piattaforme (droni, aerei, satelliti) e di sensori (Sar e fotocamere), che mettono in campo enormi investimenti e producono dati sensoristici in grande quantità, da una parte e, dall’altra, le strutture di elaborazione, scarsamente finanziate dai governi e strutturalmente sottodimensionate. Così, grandi moli di dati restano inutilizzati o scarsamente utilizzati, perché non pervengono all’utente finale sotto forma di informazione utile e pronta all’uso. Insomma, un collo di bottiglia informativo, strutturale e permanente.
La ristrettezza dello spazio di scrittura consente in questa puntata solo di esprimere propositi di azione critica. Ma è già chiaro che non vi possono essere zone franche, risparmiate da uno scrutinio puntuale, per un timore quasi reverenziale che sembra avvolgere gli enti i ricerca, tenendoli indebitamente al riparo. Ora il mio è solo un proposito, ma confido di mantenerlo. Questa vigilanza non è cosa da giornalisti, ancorché specializzati. È cosa da ricercatori, che sanno di che cosa si parla, per avervi dedicato l’intera vita.