Il 6 al SuperEnalotto e il grande inganno dei "sistemoni"
Le 90 persone che hanno vinto il premio record di 371 milioni di euro sono stati fortunati e basta. Gli ingegnosi "sistemi" a multigiocate sono solo l'evoluzione degli amuleti porta fortuna del Cinquecento
La convinzione che la fortuna non sia del tutto cieca, e quindi possa essere aiutata a vedere, a essere in qualche modo indirizzata è vecchia quanto il gioco d’azzardo, soprattutto quanto il concetto di lotteria (agli albori più simile alla tombola che alla Lotteria Italia) vale ancora oggi, con ogni lotteria, soprattutto con la grande passione segreta degli italiani, il Lotto, e la sua evoluzione da copertina, il SuperEnalotto, che ieri ha segnato la vittoria del premio più alto mai vinto in Italia: 371 milioni di euro (da dividere tra 90 fortunati, tolte le tasse).
La convinzione che la fortuna non sia del tutto cieca, ma possa essere aiutata a vedere era già ampiamente diffusa in tutto il territorio italiano già verso la metà del Cinquecento: nelle piazze dove si facevano le lotterie, e soprattutto nelle fiere, c’era sempre il venditore di amuleti e portafortuna specifici per le lotterie. E per secoli, ma vale ancora oggi, l’idea che con la magia, o con piccoli oggetti chissà perché fortunati, si potessero aprire gli occhi alla sorte ha fatto la fortuna di ciarlatani, truffatori, gabbamondo. Con la diffusione del Lotto nazionale, prima, e soprattutto del Totip, dal 1946 in poi, ai ciarlatani, ai truffatori e ai gabbamondo, si sono aggiunti gli scienziati della buona sorte, una specie di oculisti della fortuna. Gente parecchio più raffinata dei venditori di amuleti, che comunque resistono tuttora alla grandissima.
Elio Narducci era un professore di matematica di Prato. Era nato nel 1910, era riuscito a completare gli studi alla Scuola Normale Superiore, era soprattutto riuscito a tornare vivo non si sa come dalla campagna di Russia. Aveva due passioni: il calcolo statistico e i cavalli. E una predisposizione alla truffa che lo condusse due volte in galera: la prima per aver replicato in Italia lo schema Ponzi, la seconda per aver venduto a due nobildonne svizzere rubini che non lo erano. Ma questo avvenne dopo il giorno nel quale le sue passioni, per volontà della Sisal, iniziarono ad andare a braccetto: era il 30 maggio del 1948, il giorno nel quale venne lanciato il Totip, che è abbreviazione di Totalizzatore Ippico, che altro non è che un concorso a premi nel quale si doveva indovinare i gruppi di appartenenza del primo e del secondo cavallo arrivati al traguardo di sei gare domenicali: ogni gruppo (nominato 1 X 2) conteneva dai tre ai quattro cavalli e tutti i tre favoriti della corsa venivano distribuiti nei tre gruppi. Elio Narducci nel 1949 iniziò a dire in giro, a Prato, che per vincere al Totip non bastava saperne di cavalli, serviva avere anche un sistema di gioco. E lui ce l’aveva. E cercava gente disposta a dargli fiducia. Perché il suo sistema potesse funzionare, infatti, servivano più persone visto che per aumentare le probabilità di vittoria serviva aumentare le giocate e quindi l’esborso complessivo era maggiore. Gli ci vollero oltre due mesi per radunare le cinquanta persone utili a dare il via al suo sistema di gioco. Andò male per cinque concorsi, poi riuscì a vincere. Non molto a dire il vero, ma abbastanza per ripagare le prime cinque giocate e parecchie delle successive. Quello di Elio Narducci fu, con ogni probabilità, il primo sistemone della storia.
Dal 1949 a oggi, ogni gioco a premi ha avuto i suoi sistemoni. L’ultimo è stato quello che ha vinto ieri il premio più ricco della storia del SuperEnalotto.
Che il sistemone possa aiutare la fortuna a vedere è qualcosa di statistico: se giocando sei numeri in una schedina del Superenalotto si ha una possibilità su 622.614.630 di centrare la sestina, giocarne di più di sei ovviamente aumenta la probabilità di centrarlo, ma è un aumento, in sostanza, statisticamente poco rilevante. Lo ha capito bene anche Elio Narducci, che nonostante la sua trovata non è morto straricco.
C’è nessun sistemone capace di garantire vittorie considerevoli. Ci fosse non esisterebbe più il Lotto e tutti i suoi derivati. Perché il Lotto e tutti i suoi derivati sono e devono essere giochi iniqui, ossia garantire poche possibilità di vincita e premiare queste con vincite inferiori a quello che sarebbe giusto pagarle basandosi sulla probabilità di riuscita. In soldoni, un sistemone da 19 numeri costa 27.132 euro, ma copre solo 27.132 combinazioni delle 622.614.630 possibili.
Non si riflette però mai sulle reali probabilità di vittoria quando si gioca. Lo si facesse, si ragionasse statisticamente su giochi a estrazione, non si giocherebbe affatto. La gente però continua a giocare e lo fa perché la speranza di vincere milioni di euro giocandone pochi è qualcosa di molto più invitante che ragionare matematicamente su quello che si sta facendo. Giocare è nulla più che decidere di pagare in modo volontario una tassa che ogni tanto, quasi mai, si trasforma in una ricca vincita. Bel paradosso per un paese che ha sempre avuto difficoltà ad accettare e a pagare le tasse. E questo indipendentemente dai sistemoni, che altro non sono che l’evoluzione dell’amuleto o della pozione magica che venivano venduti nel Cinquecento nelle piazze e nelle fiere dove c’erano le lotterie. Un’evoluzione raffinata, pittata da uno strato sottile e accattivante di scientificità.