politiche migratorie
Salvini vuole un Cpr in ogni regione, mentre a Torino il Comune vuole chiuderne uno
La maggioranza aumenta i fondi per costruire nuovi centri per i rimpatri ma quelli vecchi, inadeguati e inefficienti, chiudono. "Privano le persone della dignità, è ora di pensare ad altri modelli", dice la Garante dei detenuti torinese Monica Gallo. L'alternativa è una soluzione non coercitiva
Tra i capisaldi della politica migratoria del governo Meloni c'è la volontà di potenziare la rete dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). “Ce ne sarà uno in ogni regione”, ha detto il vicepremier Matteo Salvini, riprendendo un vecchio slogan del governo gialloverde. L’ultima legge di Bilancio stanzia 5,39 milioni per estenderne la rete e amplia le previsioni di spesa per gli anni a venire. Il decreto approvato dopo la strage di Cutro ha autorizzato invece nuove deroghe agli appalti fino alla fine del 2025, in modo da velocizzare la costruzione, limitando però, allo stesso tempo, i controlli.
Tuttavia, i limiti di queste strutture detentive con cui il governo spera di governare l'immigrazione irregolare sono noti da anni. “Non sono funzionali e non sono funzionanti. Sono strutture che non portano allo scopo per cui sono state create, ovvero rimpatriare le persone: su scala nazionale vengono rimpatriati solo il 50 per cento dei trattenuti. E in più privano gli esseri umani di dignità perché di fatto il trattenimento avviene in luoghi assolutamente non adeguati e simili a grandi gabbie”, dice al Foglio Monica Gallo, la Garante delle persone private della libertà nella città di Torino, dove la percentuale di rimpatri scende al 40 per cento e dove c'è un Cpr tornato al centro delle cronache nelle ultime settimane.
Quella di realizzare altri Cpr “è una visione miope”, continua Gallo, e “non servirà neanche aumentarne la capienza. Si stratta di uno strumento sbagliato. Insomma, facciamo un esempio: se il carcere produce il 70 per cento di recidiva dev’essere ripensato si dice spesso, per ragioni altre anche i Cpr se si vogliono mantenere devono essere ripensati. Fermarsi, misurare i risultati e ripensare l'istituto nel suo insieme”.
I risultati dicono che sul territorio i Cpr vengono chiusi. Come quello di Torino, che Gallo conosce bene, soppresso temporaneamente a seguito delle rivolte animate dai migranti del 4 e 5 febbraio, che hanno portato all’intervento dei vigili del fuoco e della polizia in assetto antisommossa. La Garante chiarisce: “Era inevitabile che chiudesse dopo un susseguirsi di eventi, tra cui incendi, che hanno reso il centro inabitabile”. Le persone che si trovavano al suo interno sono state smistate in altri Cpr in Italia, ma non tutte. “Alcuni sono stati rilasciati. Succede sempre. A scadenza del tempo massimo di trattenimento 90 giorni, le persone se non sono state rimpatriate, non possono restare all’interno”. È una dinamica sistematica: “Vengono rilasciati con un foglio di via che li obbliga a lasciare il territorio nazionale entro sette giorni”, spiega Gallo. “Quindi dopo i sette giorni vengono spesso ribeccati e ritornano dentro il circuito dei Cpr”. È un loop che non si ferma, anche perché se il sistema nazionale non è riuscito a riportare i migranti nel paese di origine in tre mesi, non si può pensare che loro da soli ci riescano in una settimana.
Il Cpr di Torino ha una sua storia di orrori, tra atti ripetuti di autolesionismo e proteste, che rende conto anche della morte di Hossain Faisal, nel 2019, e del suicidio nel 2021 di Moussa Balde, nell’area di isolamento (poi chiusa) dopo un pestaggio violento a Ventimiglia. Una storia a sé come tutte le altre degli altri Cpr, gestiti da privati diversi che osservano con sensibilità diverse le linee guida generali fissate da una direttiva dell'ex Guardasigilli Luciana Lamorgese. Ma in comune hanno la caratteristica di replicare “un tempo sottratto alla vita”, dice Gallo. Perché nei Cpr convivono, senza fare nulla tutto il giorno, “persone di etnie diverse, di età diverse, alcuni di 18 anni e altri di sessanta, con posizioni giuridiche diverse: chi proviene dal carcere e chi è stato trovato sul territorio irregolare", anche mentre si stava recando a rinnovare il permesso di soggiorno.
A Torino, dopo la rivolta di inizio febbraio, il Consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno che chiede la chiusura definitiva del Cpr. “I costi di ristrutturazione sarebbero veramente ingenti”, sostiene la Garante di Torino (il primo firmatario della mozione, Luca Pidello (Pd) parla di almeno 1 milione di euro). “Ma è una questione che va vista su due piani", prosegue Gallo: "Il primo è politico: perché dovremmo avere una struttura che non funziona, che contribuisce a generare disagio e che non fa nulla perché non accada più? Il secondo è quello della linea di governo, che va in un’altra direzione”. Eppure, non solo questi centri non hanno mai assolto il loro compito, ma in un numero consistente di casi hanno privato della libertà migranti che si sapeva non sarebbero mai stati rimpatriati, come quelli provenienti da paesi per cui non ci sono accordi bilaterali con l'Italia.
“L’alternativa è una soluzione non coercitiva”, dice la Garante di Torino, e annuncia: “C’è un progetto europeo che prevede la presa in carico delle persone irregolari sul territorio e il tentativo di costruire un percorso di regolarizzazione”. L’iniziativa si chiama Alternative alla detenzione: verso una gestione più efficace e umana della migrazione. “Vogliamo che Torino sia la prima città in Italia a sperimentare questo nuovo metodo”.
Editoriali
A Torino i ProPal assaltano Leonardo
il decreto paesi sicuri