L'analisi
I danni all'ambiente causati dagli ambientalisti ideologici
No alle dighe negli Appennini. No alla protezione dei fiumi. No ai progetti legati alle rinnovabili. Le alluvioni in Emilia Romagna confermano chi sono i nuovi nemici dell’ambiente. Casi di scuola
E se fossero gli ambientalisti ideologici i peggiori nemici dell’ambiente? Il professor Massimiliano Fazzini, geologo e docente di Rischio climatico all’Università di Camerino, ieri sul Foglio, ragionando sull’alluvione che da giorni colpisce l’Emilia-Romagna, ha lanciato un tema interessante e ha invitato a ragionare su quante volte, in Italia, la difesa dell’ambiente sia stata ostacolata, in questi anni, dalla burocrazia ambientalista. Il riferimento del professor Fazzini, ovviamente, è ai disastri di questi giorni – ieri sono state trovate altre due vittime, a Ravenna, e il bilancio, dopo due giorni, è di undici morti – e una storia utile a illuminare il fenomeno descritto da Fazzini può essere quella di una diga molto famosa in Emilia-Romagna: la diga di Vetto. La storia è da brividi. Negli anni Settanta, l’allora ministro dell’Agricoltura Giovanni Marcora, propose per la prima volta il progetto della diga di Vetto (sulla sponda destra del fiume Enza, nell’Appennino reggiano). Nel 1988 partirono i primi lavori e il senso dell’opera fu da subito chiaro: trattenere, con una capienza pari a cento miliardi di metri cubi, l’acqua derivata dai corsi presenti in una delle zone più più piovose d’Italia, dove ogni anno cadono circa 3.000 mm di acqua piovana. Sia per portare acqua nelle zone limitrofe colpite da siccità, zone importanti come quelle in cui si produce il prosciutto di Parma e il Parmigiano Reggiano. Sia per formare una riserva idrica in grado di trattenere 30 milioni di metri cubi in caso di alluvione. Uno schermo utile per fermare le esondazioni a valle e proteggere da esondazioni località a rischio come Sorbolo, Brescello e Parma (zona in allerta rossa: ieri a Parma sono stati superati i 120 millimetri di pioggia e sono stati segnalati rischi di frane e piene di corsi minori).
La caratteristica principale di questa diga però non è la sua funzionalità ma è il suo non essere stata ancora costruita a causa di una serie di sabotaggi politici costanti portati avanti da un fronte largo di ambientalisti, che per proteggere la fauna, preservare lo stato ecologico della zona collinare e non arrecare disturbi alle faine del luogo sono riusciti nel capolavoro di bloccare l’opera per molti anni. E hanno scelto di far arrivare a valle l’acqua prelevandola non dalla montagna, come sarebbe stato naturale, ma dal Po, con enormi costi di gestione e conseguente inquinamento prodotto da un trasporto difficoltoso. “Il problema – ha detto ieri il geologo Fazzini al nostro giornale – è che negli ultimi dieci anni dal punto di vista infrastrutturale non è stato fatto nulla, in queste zone, tanto che il territorio è quello mediamente a più alto rischio idrogeologico. La spinta ambientalista all’interno della politica emiliano-romagnola è stata talmente forte che non ha permesso di far nulla”. Un discorso simile, in fondo, si potrebbe fare, sempre a proposito di alluvioni, per un’altra storia non meno paradigmatica che coincide con il nome di un fiume maledetto, nuovamente in piena in questi giorni: il Misa. Dal 1986, quando furono stanziati per la prima volta svariati miliardi per la messa in sicurezza degli argini del fiume, con i Fondi per gli investimenti e l’occupazione (Fio), si discute su come aprire cantieri sul Misa, proprio per evitare le alluvioni. La pericolosità dell’area è nota. E da anni si ragiona, invano, su come creare attorno al fiume quattro aree di laminazione, per far defluire la piena e impedire che l’acqua, come rischia nuovamente in questi giorni, esca dagli argini finendo a valle. Risultato? Dopo trentasette anni, anche a causa della pressione costante di un fronte politico convinto che l’opera avrebbe avuto un impatto negativo sull’ambiente, le laminazioni non sono state create. E in periodi dell’anno come questi, quando gli Appennini raccolgono molta acqua e la fanno confluire nel fiume, le esondazioni tendono a minacciare tutte le zone limitrofe, come sta accadendo in queste ore (oggi, nei dintorni di Senigallia, nelle Marche, dove a settembre vi furono 13 morti a causa di un’alluvione, l’allerta è alta e le scuole saranno chiuse). La storia della diga di Vetto e degli argini del fiume Misa sono paradigmatiche per ragionare sui danni arrecati all’ambiente dall’ambientalismo ideologico. Ma se si sceglie di fare un passo lontano dalle alluvioni ci si accorgerà facilmente che la stessa lente di ingrandimento la si può utilizzare anche su altri campi. E’ paradigmatica, per esempio, l’incapacità strutturale dell’Italia nel produrre autonomamente gas nazionale, estratto dal proprio suolo, attività che potrebbe evidentemente aiutare a ridurre le emissioni legate alle importazioni di gas dall’estero. E’ paradigmatica, ancora, l’incapacità strutturale di alcune amministrazioni pubbliche nel considerare la costruzione di termovalorizzatori nelle città come una soluzione da evitare, preferendo dunque l’utilizzo di camion inquinanti per portare da una parte all’altra dell’Italia rifiuti che le città senza termovalorizzatori non riescono a smaltire. E’ paradigmatica, infine, la storia delle rinnovabili nel nostro paese.
Molto invocate dal fronte ambientalista, giustamente, e poco tutelate dallo stesso fronte quando i progetti vengono rallentati dalle istituzioni di controllo, che in nome dell’ambientalismo bloccano le opere. I numeri sono noti. La metà dei progetti rinnovabili presentati in Italia non viene realizzata. Il 50 per cento dei progetti aspetta da almeno sette anni un’autorizzazione. L’altro 50 per cento non si realizza. La durata media di un iter autorizzativo è di sette anni contro una media europea di due anni (le fonti di questi dati sono Althesys ed Elettricità futura). Un rapporto di Legambiente, pubblicato pochi mesi fa, a inizio 2023, ci dice qualcosa di più e ci può aiutare a capire meglio il fenomeno. Dal 2019 a oggi, la metà dei progetti presentati, sulle rinnovabili, è ancora in attesa del parere di Via (valutazione impatto ambientale). La percentuale di progetti in attesa di Via è arrivata, nel 2022, al 98 per cento, sul solare, e al 100 per cento sull’eolico. Con il risultato che il contributo delle rinnovabili, rispetto ai consumi complessivi, oggi si trova al 32 per cento: ai livelli del 2012. Ragioni? Per stessa ammissione di Legambiente, le rinnovabili sono state messe “sotto scacco” da un colabrodo composto da 4 normative nazionali e 13 leggi regionali che hanno creato, solo nel 2022, “seri ostacoli allo sviluppo di queste tecnologie e che si affiancano ad almeno 24 storie di opposizioni dai territori”. Si dirà: e che c’entra tutto questo con le alluvioni? C’entra. Eccome se c’entra. C’entra per questioni legate alle infrastrutture mancanti che potrebbero proteggere dalle emergenze di oggi (le alluvioni) e da quelle di domani (la siccità). E c’entra per un’altra ragione Se, come si dice, vi è “una crisi epocale di natura climatica” – e se affrontare questa situazione è una questione vitale – bisognerebbe essere coerenti, stabilire nuove priorità e considerare, per esempio, l’efficienza delle infrastrutture necessarie a governare il clima, la pioggia e la transizione energetica una priorità superiore rispetto alla prevalenza dell’ideologia sui vincoli paesaggistici, alla retorica anti sviluppista e alla tutela delle zone presidiate dalle faine. La difesa dell’ambiente è importante, lo sappiamo. Ma ancora più importante è proteggere l’Italia da una burocrazia ambientalista che oltre che essere nemica dello sviluppo, al fondo, certifica che spesso sono gli ambientalisti ideologici i peggiori nemici dell’ambiente.