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Il dibattito

La provvidenziale diga di Ridracoli, a dispetto degli ambientalisti del No

Marco Di Maio

Senza quell'infrastruttura "iI disastro sarebbe stato ancora più terribile", dice il presidente di Romagna Acque. Non basta incolpare i cambiamenti climatici, serve agire concretamente e realizzare delle opere per evitare altre tragedie di questa entità

E’ possibile immaginare uno scenario peggiore di quello che sta vivendo in questi giorni la Romagna alluvionata? Sì, quello in cui non esistesse la diga di Ridracoli, il grande invaso d’acqua collocato sull’Appennino romagnolo a cavallo dei comuni di Bagno di Romagna e Santa Sofia. Un “gigante” in grado di garantire l’acqua potabile a un milione di persone e rispondere alle esigenze delle province di Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini e Repubblica di San Marino. Un muro di cemento e ferro capace di contenere fino a 33 milioni di metri cubi d’acqua, pensato a suo tempo per rispondere al problema della siccità; ma che in questa fase drammatica è servito anche a mitigare i danni – pur ingenti e senza precedenti – provocati dall’alluvione che ha colpito la Romagna. Come? Contenendo la piena di alcuni corsi d’acqua, di cui il principale è il Bidente-Ronco (che pure è esondato, ma con una portata molto ridotta) che attraversa tutta la vallata forlivese e arriva fino a Ravenna. “Senza la diga il disastro sarebbe stato ancora più terribile, molto più di quanto possiamo immaginare”, ci dice Tonino Bernabè, presidente di Romagna Acque, la società di gestione della diga e di tutte le fonti idriche in Romagna.

 

Eppure per arrivare alla realizzazione di questo prodigio ingegneristico (pensato negli anni 60, iniziato a realizzarsi negli anni 70, terminato nell’82 e inaugurato nell’88) ci fu bisogno di superare la feroce opposizione dei “signori del No”. Quelli che in nome di un ambientalismo ideologico si oppongono a ogni investimento infrastrutturale. Il “padre” della diga, Giorgio Zanniboni (amatissimo sindaco di Forlì dal 1979 all’89), arrivò a collezionare ben oltre la decina di avvisi di garanzia per la realizzazione dell’opera: tutti finiti in una bolla di sapone. Se i politici di allora avessero ascoltato quei comitati e i loro politici di riferimento, oggi la Romagna sarebbe una terra siccitosa e in occasione di calamità come quella di questi giorni interi paesi sarebbero stati spazzati via: i 33 milioni di metri cubi trattenuti dalla diga, infatti, sarebbero finiti sui corsi d’acqua con effetti devastanti. 

  

Gli ostacoli di oggi sono analoghi a quelli dell’epoca: “In Italia tratteniamo solo l’11 per cento dell’acqua piovana – spiega Bernabè – il che significa che ogni anno disperdiamo 270 miliardi di metri cubi d’acqua (pari a 8 mila dighe come Ridracoli, ndr) perché non siamo in grado di contenerla. Bisogna prendere coscienza che realizzare nuovi invasi e infrastrutture idriche è una priorità per il paese: per il presente e il futuro”.

   

“Si passa rapidamente da brevi periodi di intense precipitazioni a lunghe fasi di siccità – analizza Bernabè –. Non basta incolpare i cambiamenti climatici, serve agire concretamente. Non ci sono azioni sufficienti per trattenere l’acqua a monte e dunque non si proteggono i territori a valle dagli eventi alluvionali; non si protegge la costa dal fenomeno della subsidenza; e non si tiene conto del fatto che la riduzione del 50 per cento della neve sulle Alpi rappresenta un cambiamento epocale”. E spesso le risposte che si ipotizzano sono contraddittorie, evidenzia ancora Bernabè: “Mentre mancano le necessarie opere per trattenere l’acqua a monte, addirittura si ipotizza di dissalarla a valle: con impianti di tipo industriale, energivori, impattanti sul piano ecologico, che rilasciano salamoia in concentrazione non più riutilizzabile dentro processi industriale”. Costi elevati, bilancio ambientale negativo, tempi di realizzazione biblici. L’opposto di quanto servirebbe.

 

Occorre passare all’azione, dunque, ma con gli strumenti giusti: “Non è solo un problema di soldi, ma anche di modalità operativa e di visione – spiega ancora Bernabè –. Con ‘Italia Sicura’ il nostro paese si era dato uno strumento che funzionava: corsie accelerate per superare i rallentamenti burocratici; tecnici in grado di progettare bene e in tempi brevi, ma anche di sopperire alla carenza di personale degli enti locali, impoveritisi di competenze; un coordinamento nazionale degli interventi, perché quello che manca è anche una visione d’insieme che tenga conto tutti gli aspetti del problema idrico: quello potabile, quello irriguo, quello industriale”. Parlare di questi investimenti, però, in Italia resta un tabù: “E’ ora di superarlo: nel nostro paese le ultime dighe realizzate dopo il disastro del Vajont sono state quella della Romagna e il Bilancino a Firenze. Nel frattempo, però, ogni anno lasciamo andare 270 miliardi di metri cubi d’acqua piovana.  E’ il tempo della lungimiranza e delle decisioni, anche impopolari: ne va del nostro futuro”.

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