L'editoriale dell'elefantino
Lode ai romagnoli e alla Romagna, “terra benevola et benefactrice” che rigetta la lagna
Hanno rifiutato ogni lamentela, mai vittime, per esibire senza sfarzo ma con assoluta eleganza un linguaggio competente, preciso, che spiega e razionalizza anche l’apocalisse. Trovano sempre il modo di nobilitarsi anche nella sconfitta, quelli di Cesena, Forlì, Faenza, Bagnacavallo, Ravenna, dei paesi coperti di acqua fangosa
Edmondo De Amicis avrà avuto le sue ragioni per dedicare al “Sangue romagnolo” il suo famoso e tenero racconto horror, con il quindicenne Ferruccio che si pente delle sue “scapestrature” abbracciando la nonna e proteggendola con il suo corpo dalla pugnalata dell’infame Mozzoni, ottenendo il suo perdono contrito d’amore in punto di morte. L’Ottocento ha la sua sapienza etno-regionale, e chi siamo noi per giudicare le sue scapestrature letterarie? Dante amò intensamente e tormentosamente la Romagna dei tiranni, del sangue e dei modi autentici e belluini, dannandola sottilmente e obliquamente nell’Inferno con l’assoluzione impossibile di Guido da Montefeltro (“ch’assolver non si può chi non si pente / né pentere e volere insieme puossi / per la contraddizion che nol consente”), riscattandola in parte nel Purgatorio e celebrandola nella pace nel Paradiso, che pare sia stato scritto nell’ozio produttivo di Ravenna.
Nel XXI secolo i romagnoli che ci parlano alla radio dal fango dell’alluvione sono le guardie svizzere antipapaline, una sezione sopravvissuta dell’Italia imperiale postbizantina, sono esercito di un patriottismo linguistico, consapevole, adulto, repubblicano, per niente remissivo o rassegnato ma intenso, coraggioso, orgoglioso, solerte verso la comunità senza familismo, e nella infinita tristezza per le vite e gli orti perduti affetto perfino da una sorta di allegria di naufraghi. Sembrano gente venuta da un altro mondo, insediata tra noi, capace di espungere difetti piagnoni, pressappochismi di opposizione e di governo, farse dell’animo e del cuore. E’, la loro loquela, esperienza fortissima di una sostanza italiana radicata in una piana alluvionale, stavolta e molte altre volte maledetta dall’Appennino, minacciata dalle nubi e dal vapore, colpita ma non domata da un infinito scroscio di pioggia. Dove prendano coltivatori, ordinari cittadini, pompieri, ingegneri, geologi, amministratori, volontari e madri di famiglia, signori e gran signori che escono da casali e cortili, dove prendano la forza per parlare senza retorica, risorti prima di morire, mai vittime, e per esibire senza sfarzo ma con assoluta eleganza un linguaggio competente, preciso, che spiega e razionalizza l’apocalisse, che rigetta la lagna mentre chiede un onesto aiuto in contraccambio del lavoro e del rigore di vita, questo non si sa. Ma trovano sempre il modo di dire e di dirsi romagnoli, di nobilitarsi nella sconfitta, quelli di Cesena, Forlì, Faenza, Bagnacavallo, Ravenna, dei paesi e contadi coperti di acqua fangosa ormai da una settimana e più.
Bisogna lodarli, amarli, comprenderli, aiutarli senza timore, non sono altro che il cool italiano, un accento bonario e senza estremismo vernacolare, hanno prestigio che scorre nelle loro vene, sorprendono, stupiscono per uno strano spirito localista sposato a un’intelligenza globalista delle cose. Ho Roma, gli Abruzzi, le Marche e la Sicilia occidentale nella mia piccola genealogia personale, e mai come in questa circostanza eroica senza ridondanza mi manca, se ancora si possa citare l’ethnos senza vergognarsene, il sangue romagnolo, un grumo della “terra benevola et benefactrice”.