Il mondo sott'acqua
Prevenzione e reazione: ecco come a Roma e in Cina i governi hanno reagito alle piene
Nelle inondazioni e nei terremoti, la cartina di tornasole dell’efficacia dei governi è nel come reagiscono e progettano il dopo. Due esempi
Il peggio, nelle inondazioni e nei terremoti, non è la paura e la tragedia del momento. Non sono le vittime e le perdite immediate. E’ quel che viene dopo. La cartina di tornasole dell’efficacia dei governi è nel come reagiscono e progettano il dopo. Gli si chiede non solo di organizzare i soccorsi immediati, ma di progettare a lunga scadenza. Ecco come se la sono cavata a Roma e in Cina. Molto tempo fa.
Erano passati poco più di due mesi dalla breccia di Porta Pia che Roma subì la più grave inondazione da due secoli e mezzo. Il Tevere si gonfiò di oltre 18 metri rispetto allo “zero di Ripetta”, che corrisponde al livello del mare. Fu la piena più imponente dopo quella del 1637. Quando tre giorni dopo, il 31 dicembre 1870, giunse Vittorio Emanuele II a prendere possesso della sua nuova capitale, la città era, a eccezione dei colli e dei quartieri “alti”, un ammasso puzzolente di acqua, fango, escrementi, spazzatura, macerie. Solo il fatto che successe d’inverno evitò che seguissero epidemie. Si dovettero disdire le solenni cerimonie e i festeggiamenti di popolo previsti. Si cominciava male. Il Regno d’Italia, già isolato da buona parte dell’Europa per aver fatto sloggiare il Papa, sarebbe stato colpito nei mesi successivi da una serie di altre gravi alluvioni. Ci fu chi parlò di punizione divina.
“Metà di Roma è sotto l’acqua. L’onda salì improvvisamente alle 5 del mattino e presto coprì il corso, e penetrò nella via del Babuino verso piazza di Spagna […]. La vista delle strade in cui canotti navigano come a Venezia era singolare; i lampioni e i lumi versano sull’acqua bellissimo riflesso […]. Dalle case si grida, mancando il pane. I preti gridarono che questa è la mano di Dio, e l’effetto della scomunica papale […]. Le cronache medievali favoleggiano sovente di dragoni d’acqua, che hanno introdotto in Roma le inondazioni del Tevere; la grande balena fu questa volta Vittorio Emanuele […]. Montò al Quirinale. A mezzogiorno passeggiò per le strade, con accanto Lamarmora. A sera già fece ritorno a Firenze”. Così la testimonianza di Ferdinand Gregorovius nei suoi Diari romani.
Due mesi dopo la breccia di Porta Pia, Roma subì una gravissima inondazione. Allora si decise di costruire i muraglioni lungo il Tevere
Fu istituita subito, il 1 gennaio 1871, una commissione col compito di approntare progetti per la difesa della capitale. Chiamarono a farne parte molti tecnici. I piemontesi avevano una nomea di efficienza da preservare. C’era già stata, dal 1531 in poi, una marea di progetti. Sugli scaffali delle biblioteche giacevano almeno 21 ponderose monografie, dense di proposte mai realizzate, anzi nemmeno seriamente prese in considerazione. C’era chi proponeva di deviare il corso del Tevere, farlo passare fuori città. Era un vecchio progetto: l’aveva già proposto, un paio di millenni prima, Giulio Cesare. Prevalse il progetto di Raffaele Canevari, uno stimato ingegnere idrogeologico. Prevedeva di chiudere il Tevere tra due file di alti muraglioni, capaci di resistere a piene superiori a quella del 1870. Sono grosso modo gli stessi muraglioni di travertino che esistono ancora. C’erano state molte obiezioni al progetto di Canevari. Si obiettava che avrebbe snaturato il paesaggio della città, separato Roma dal suo fiume, comportato la demolizione di parte del Ghetto. In effetti per vedere il Tevere scorrere ci si deve affacciare agli spalti dei muraglioni, o attraversare uno dei ponti. I lungotevere sono diventati autostrade, i pendii che scendono al fiume un sorta di terra di nessuno, ricettacolo di senza dimora. La discussione si protrasse per anni. Finché dovette intervenire il senatore Giuseppe Garibaldi a imporre il bando agli indugi. Lui a dire il vero favoriva il progetto di deviazione. Ma dovette arrendersi dinanzi al fatto che costava troppo per le finanze del Regno. Sarebbero dovuti passare sul cadavere di Quintino Sella, l’onesto e severo ministro delle Finanze, padre del pareggio di bilancio. Il Regno era già alle prese col brigantaggio, che gli costò più vittime che tutte le guerre d’indipendenza messe insieme. Non potevano permettersi di imporre altre tasse. L’opera fu terminata nel 1910. E, incredibile a dirsi, costò meno del previsto.
Si tratta degli stessi muraglioni, brutti e deturpanti quanto si vuole, che, uniti a due collettori sotterranei che impediscono al fiume di risalire le fogne, e a altre opere successive, bene o male hanno impedito da allora inondazioni devastanti. Da due millenni e passa ce n’era stata una ogni 30 anni circa. La piena del 1937, che era pari a quella del 1870, sarebbe passata quasi senza colpo ferire. Gli ultimi lavori seri erano stati quelli in epoca romana antica. La città era sempre stata molto vulnerabile alle alluvioni. La speculazione edilizia aggravava le cose. Giovenale fa un elenco di appaltatori senza scrupoli che guadagnavano sulle miserie e sofferenza altrui. Oltre ai mercanti di schiavi e ai costruttori di templi comprende anche “quelli che asciugano le inondazioni”. Alle insulae di mattoni cotti al sole, erette con materiali scadenti, si continuavano ad aggiungere piani su piani. Poi gli edifici crollavano a ogni inondazione perché l’acqua stagnante scioglieva la malta alle fondamenta. Spiega Tacito che le tragedie si verificavano non al momento dell’inondazione ma dopo, una volta che le acque si erano ritirate (Annales 1. 76). L’insula conservata a un angolo del monumento a Vittorio Emanuele, diventato Altare della Patria, dà un’idea del disordine edilizio. Il sovraffollamento lo rendeva molto redditizio. C’è una testimonianza di Cicerone, grande palazzinaro, che in una lettera rassicura l’amico Attico di non essere preoccupato del crollo di uno degli edifici che affittava, e men che meno della sorte degli inquilini che erano rimasti sotto, anzi ne è felice perché così potrà ricostruire un edificio nuovo, che gli renderà ancora di più. Si capisce che il senatore non era molto popolare presso la plebe.
Augusto, che aveva bisogno assoluto di popolarità, si diede un gran da fare. “Nel giro di pochi giorni ho liberato la città dalla paura”
Augusto, che aveva bisogno assoluto di popolarità per mantenere il potere, si diede invece un gran da fare, specie dopo la disastrosa alluvione del 22 avanti Cristo, per organizzare i soccorsi, gestire l’importazione di grano per evitare le sommosse che già cominciavano a serpeggiare, costruire magazzini dove potessero essere tenuti all’asciutto e non consumati dalle micidiali muffe. Un folla inferocita aveva dato l’assalto al Senato, e lo invocava offrendogli la dittatura. Lui rifiutò. Ma organizzò i rifornimenti di grano. “Nel giro di pochi giorni ho liberato la città dalla paura”, si sarebbe vantato nelle Res Gestae, la sua autobiografia politica scolpita nel bronzo. Precisando di averlo fatto pagando “di tasca propria”. Era troppo furbo per esporsi alle accuse di ambire ai “pieni poteri”, che già erano costate la vita al suo padre adottivo Giulio Cesare. Il suo capolavoro politico fu far finta di non cambiare le istituzioni. Rivendicava di aver restaurata la Repubblica, non di averla trasformata in impero, di essere solo Princeps, primo inter pares, in un Senato formalmente sempre sovrano. Affidò al genero Marco Vipsanio Agrippa la gestione della acque, la ristrutturazione della Cloaca maxima e dell’intero sistema fognario, altri lavori idraulici, la costruzione di argini, opere di drenaggio oltre che di fontane ed edifici monumentali (la scritta sul frontone del Pantheon dice che fu lui a erigerlo). Anche a quei tempi ci si fidava di “uno di famiglia”. Se l’era scelto lui come genero. Sapeva scegliere gli uomini, per la loro capacità, non solo per fedeltà di partito. Ho trovato affascinante e ricchissimo sull’argomento il saggio quasi enciclopedico dello storico americano Gregory S. Aldrete sulle inondazioni del Tevere in Roma antica (Floods of the Tiber in Ancient Rome, Johns Hopkins University Press, 2007).
Le alluvioni dei bacini dello Yangtze e del Huai nel ’31 fecero 3-4 milioni di vittime, la maggiore catastrofe naturale nella storia della Cina
Se le alluvioni del Tevere e degli altri fiumi italiani sono sempre state catastrofiche, quelle dei fiumi cinesi sono sempre state le più assassine. Nel 1931 piovve ininterrottamente da giugno ad agosto. I due anni precedenti erano stati di siccità. Le acque invasero 180.000 chilometri quadrati, cioè una superficie pari a quasi dieci volte quella dell’Emilia-Romagna. Nelle alluvioni dei bacini dello Yangtze e del fiume Huai annegarono 150.000 persone. Ma gli annegati erano solo meno di un quarto del totale delle vittime. Un rapporto ufficiale dell’epoca conta oltre due milioni di morti per mancanza di cibo. Era andato distrutto un quinto del raccolto di riso e cereali di tutta la Cina. Per mesi sulle terre allagate galleggiavano cadaveri e carogne di animali. Subentrò un’epidemia di colera, che furoreggiò fino all’anno successivo. Altre fonti calcolano il numero delle vittime in 3,7-4 milioni. Il che ne fa la maggiore catastrofe naturale di tutta la storia della Cina, forse del mondo.
L’epicentro era stato, anche allora, Wuhan, nello Hubei, che significa “a nord del fiume”. Sì, la città da cui sarebbe partito nel 2019 il Covid. Lì si erano raccolti a centinaia di migliaia gli sfollati dalle campagne. La rottura improvvisa di una diga, venuta ad aggiungersi alle piogge, la sommerse interamente. “Non ci fu alcun avvertimento. Solo un improvviso gran muro d’acqua. La maggior parte delle costruzioni era a un solo piano [come in quasi tutto il resto della Cina], per molti non ci fu alcuno scampo. […] Non appena sentii il terribile fragore, e vidi il muro d’acqua, corsi al piano più alto. Mi trovavo nella sede centrale della Compagnia, un edificio di nuova costruzione di tre piani, uno dei più alti della città […] non avevamo idea se l’acqua sarebbe salita ancora o sarebbe rifluita […]”. Questa la testimonianza di Jin Xilong, ingegnere capo dell’Agenzia per la prevenzione delle alluvioni.
Gli ingegneri confuciani erano la spina dorsale del “dispotismo idraulico”. La corruzione era tollerata se gli argini reggevano
Fu un test decisivo per il Kuomintang. Così come il terremoto di Tangshan (200.000 vittime) lo sarebbe stato nel 1976 per gli eredi politici di Mao, guidati dalla sua vedova. Chang Kai-shek nominò una commissione di esperti cinesi e internazionali, affidandola a suo cognato T. V. Soong, ricchissimo affarista in odore di corruzione. Era come mettersi una pietra al collo. Rafforzò la nomea che il suo fosse un governo corrotto, attirò simpatie ai suoi nemici comunisti. Non gli giovò una campagna contro la superstizione, per sradicare credenze popolari che ostacolavano i soccorsi, come l’idea che a causare le inondazioni fossero i draghi, divinità delle piogge e dei fiumi. L’ordine di demolire il tempio dedicato al Re Dragone gli attirò solo l’ostilità della popolazione. Il suo governatore e comandante militare della provincia, nonché sindaco di Wuhan, aveva capito un po’ meglio l’aria che tirava. Si era affrettato ad organizzare invece cerimonie per onorare il dio.
Eppure, nessuna civiltà si è data, sin dalle origini, tanto da fare per controllare i propri fiumi quanto quella cinese. Leggenda vuole che fosse un imperatore, il Grande Yu, il fondatore della dinastia Xia (2205-1766 avanti Cristo), a domare le acque e incanalare i fiumi. Tra i bacini che hanno fatto la Cina c’è quello del Fiume Giallo, teatro nei millenni di innumerevoli alluvioni, grandi tragedie, epiche migrazioni, ma anche immani opere di ingegneria idraulica. La morfologia somiglia un po’ a quella dei fiumi emiliani, con moltissimi affluenti che confluiscono a ventaglio, e improvvisamente possono trasformarsi da rigagnoli in torrenti mostruosi. Una lettura in queste notti, che mi ha preso quanto un giallo, è il saggio di uno studioso americano, Randall A. Dodgen. Si intitola Controlling the Dragon. Confucian Engineers and the Yellow River in Late Imperial China (University of Hawaii Press 2001). Racconta tutto quello che uno vorrebbe sapere sui misfatti del Fiume Giallo e gli sforzi umani per prevenirli e rimediare. E si concentra sul ruolo che ebbero gli ingegneri confuciani nel progettare e gestire i grandi progetti idraulici, e il complicatissimo equilibrio tra i fiumi che scorrono da ovest a est, e il Grande Canale artificiale che li interseca da nord a sud. Era un capolavoro di ingegneria, completato dai Ming, che supera in importanza strategica la Grande muraglia del Primo imperatore Qin: oltre che a controllare i fiumi, serviva ad assicurare i rifornimenti di cereali della capitale. Gli ingegneri confuciani erano una élite preparatissima, indispensabile. La spina dorsale di un sistema millenario fondato sul “dispotismo idraulico”. Con un unico difetto: che ogni tanto lasciavano che i loro segretari e i loro famigliari si arricchissero appaltando e facendo la cresta su “progetti minori”. Gli imperatori dell’ultima dinastia, i Qing, chiudevano un occhio, consideravano “scusabile” un modesto arricchimento, “se i progetti e le stime erano grosso modo corrette, e le opere resistenti”. Ma li punivano severamente se crollavano gli argini. Erano tempi duri per i tecnici. L’impero era sull’orlo del disastro finanziario. Il controllo delle acque entrò in conflitto con la saggezza fiscale. Prioritaria divenne la lotta alla corruzione, a scapito della perizia tecnica. Se i funzionari preposti sbagliavano i calcoli veniva considerato un “affronto personale all’imperatore”. Fu caccia al capro espiatorio. Finì la progettualità. Il complesso, delicatissimo sistema di manutenzione andò a ramengo.
C’è un tantino di provincialismo nel modo in cui i media stanno trattando le alluvioni in Emilia Romagna. Nello spazio e nel tempo. Tendiamo a dimenticare che sott’acqua sta andando mezzo mondo. Negli ultimi due anni ci sono state alluvioni devastanti in Germania e in mezza Europa. Ma ancora non fa notizia se succede molto, ma molto peggio, con molti più morti e devastazioni, lontano, mettiamo in Pakistan, o in Africa. Inondazioni catastrofiche hanno dato la scossa anche alla immensa palude dell’America profonda, conservatrice e sinora disinteressata ai problemi ambientali, quella che per intenderci aveva votato per Trump, il quale gli prometteva di “fare grande l’America” con meno tasse, e niente più impegni internazionali, a cominciare da quelli sul clima. Cresce anche il numero di coloro che si sono accorti che la transizione ecologica conviene all’economia. Il Covid avrebbe dovuto insegnarci che nessuno è immune e nessuno può pensare di potersela cavare da solo. Virus, terremoti, meteo se ne fottono di propaganda elettorale, egoismi, nazionalismi ed etnie da privilegiare.