La storia
Pepe a Grani, dove sovranisti e innovatori fanno pace davanti a una pizza
A Caiazzo, in provincia di Caserta, la pizzeria di Franco Pepe unisce tradizione e sperimentazione con le sue creazioni culinarie. Mettendo d'accordo destra e sinistra
Lo so, a prima vista Caiazzo può sembrare un paese ancora mezzo agricolo. Lo so che qui ci sono ancora i residui del mondo contadino che fu. So anche che alcuni scorci possono sembrare troppo ameni, e poi, Caiazzo, venendo da Caserta, rispetto alla strada provinciale, si sviluppa sulla destra e quasi non si vede, dovete parcheggiare (c’è un bel parcheggio multipiano) e inoltrarvi nel centro storico. Quindi, voi dite, già è troppo visitare Caserta, nel senso che basta la Reggia, ma a Caiazzo che ci andiamo a fare? Eppure Caiazzo è un luogo innovativo, l’amministrazione si impegna molto per la promozione in questo senso, e ve ne accorgete anche voi, almeno della fibrillazione serale: camminate per i vicoli e c’è tutto un via vai di persone elettrizzate, non solo ragazzi, ma comitive, piccoli, adolescenti, adulti.
Il fiume di queste persone poi forma un’affluente che va a morire in un vicolo: ecco, a morire è una metafora geografica, ma insomma a Caiazzo ci si va anche per mangiare la pizza da Pepe in Grani, alias Franco Pepe: l’uomo che per il terzo anno consecutivo è risultato il miglior pizzaiolo al mondo, dico al mondo, eh! Ora, attenzione, lo so che uno dice va be’, ma dai, è ’na pizza, prodotto povero, una specie di pane e pomodoro, dai che ci vuole. E invece, a parte che non è vero, ma da quest’anno la pizza non viene rubricata sotto la voce sottogenere culinario, ma è un piatto vero e proprio: comunque poi, se avete dubbi, basta assaggiare le pizze di Franco Pepe e vedete se sono o non sono un sottogenere. Non lo sono, anche perché Franco Pepe è uno chef innovativo, con una storia molto particolare alle spalle, d’altronde le storie innovative a volte non piacciono perché ci portano fuori dalla zona di confort e ci confondono, ma proprio per questo offrono un sacco di benefici culturali ed economici. La ricerca di Franco è tutta focalizzata sul sapore, esaltare un sapore comune e farlo diventare straordinario.
Gli ho chiesto per esempio, a proposito di sapore, quale fosse il cibo della sua infanzia, la madeleine proustiana: “Ricordo una crema fatta con farina, uova e buccia di limone, la faceva mamma, nel pomeriggio, per colazione, metteva la crema in un piattino, non toglieva nemmeno la buccia di limone, la metteva nel piatto, e io ricordo questa crema semplicissima ma profumatissima”. Ora sarà la mia mania per Proust, però sono sicuro che la memoria è un buon motore, in fondo la cucina di Franco è semplice e profumatissima, come la crema di sua mamma, materiali semplici ma messi insieme in maniera non ovvia. La sua storia, a proposito di memoria, risale al nonno, che aveva un forno e faceva il pane, la pizza era dunque un prodotto secondario, dopo il pane c’era la pizza: “Poi mio padre ebbe un’intuizione, erano gli anni 60: la pizza può funzionare. Così aprì una pizzeria, dove si può dire che sono nato, cresciuto, ho fatto le mie prime esperienze. Ero un insegnante di educazione fisica che la sera faceva il pizzaiolo e nel 2011 mi sono fermato e mi sono spogliato delle mie vesti di insegnante, anzi siccome avevo una specializzazione sul sostegno, quella specializzazione mi ha fatto anche riflettere sulla mia scelta, e allora, esco dalla pizzeria di famiglia e con 4 soldi, indebitandomi in banca, cerco di acquistare un rudere del Settecento che mi piaceva tantissimo nel centro storico”. Oh, per quanto sopra detto, Caiazzo conserva tracce del passato contadino, e quindi un rudere del Settecento in un centro storico svuotato non sembrava una buona scelta: ruderi su ruderi: “Ho iniziato con molte difficoltà economiche, con sette ragazzi, e avevo detto loro che non sapevo nemmeno quanto potevo dargli di stipendio a fine mese, ma hanno creduto in me e oggi conto più di 50 dipendenti. Comunque io volevo fare poco e buono, soprattutto mettere a frutto gli insegnamenti di mio padre”.
La particolarità di questi insegnamenti e naturalmente l’apporto (il know-how, come si dice) di Franco Pepe è tutto nell’impasto a mano: “Ho creato una squadra di impastatori che impastano 800/1.000 panetti al giorno, numeri solo di sera, accogliamo circa 400 persone al giorno”. L’impasto a mano perché? Non va bene il macchinario? “No, impastare a mano significa ascoltare attraverso il tatto, la vista, l’olfatto, tutto quello che ci accade davanti, insomma questa sensibilità la macchina non ce l’ha, la tecnologia mi interessa molto ma non sull’impasto. Dopo l’impasto per me l’importante è creare, e se trovo un pomodoro come quello di Alife, che viene direttamente dall’Ottocento, unico e con tanto sapore, allora lo uso per creare la margherita sbagliata perché il mio obiettivo è portare al palato di quelle persone il pomodoro nel modo giusto, cioè slegato dalla mozzarella, dall’olio e dal basilico. Quando creo le ricette nuove ho due obiettivi: o creo un gusto unico, come la scarpetta, composta di pomodoro, fonduta di formaggio, pesto di basilico liofilizzato e lì c’è il sapore unico, oppure cerco di slegare i singoli gusti dall’insieme”. La pizza è presente in tutto il mondo, solo in tre posti del mondo – dice il grande lavoro di Maxime Bilet e Nathan Myhrvold – la pizza è assente. Ma la pizza è identitaria, dunque locale, ma esprime diverse identità, anche a Napoli ci sono varie versioni, quindi è globale, esprime e integra moltitudini. Quindi possiamo utilizzare la pizza “per raccontare un territorio” e allo stesso tempo innovarlo.
Questo è il lavoro di Franco Pepe, uno che raccoglie il testimone del passato per portarlo avanti, cosa non facile perché il tutto si basa sulla conoscenza. Esempio? La pizza all’ananas. Demonizzata da tutti: “Una volta mi hanno fatto una domanda. Che ne pensi della pizza all’ananas? Ho risposto, non lo so. Mi sono messo a studiare e ho scoperto che è nata negli anni 60 in Canada, ma è stata realizzata con accostamenti sbagliati, per esempio ananas e salsa di pomodoro, acidità più acidità, oppure veniva utilizzato l’ananas in scatola, già cotto e ricco di zuccheri aggiunti, insomma ho fatto una riflessione: ma l’ananas a noi piace? Sì! E allora devo portare questo piacere al palato delle persone, a volte è la nostra ignoranza, quella del pizzaiolo che ci impedisce di utilizzare le materie prima, quindi ho creato un conetto fritto su una fonduta di formaggio caldo, quando esce dall’olio caldo, viene tagliato a metà, ho subito pronto il pezzo di ananas che tengo in frigo a una temperatura di 4 gradi e lo avvolgo in una fetta di prosciutto crudo e prima di inserirlo nel cono, uso un po’ di polvere di liquirizia a contatto con la fonduta di formaggio, e poi inserisco l’ananas: è una ricetta fantastica, caldo freddo, due temperature. L’ho chiamato Anascosta. Cioè Ananas nascosto. Questo è in sintesi il lavoro di Franco Pepe, tutto basato sulla conoscenza, ed è incredibile come questa possa essere sorprendente e piacevole. Unisce tradizionalisti e sovranisti della pizza con gli sperimentatori, locali e globali. Tradizione e innovazione, insomma, le cose di cui parliamo e su cui ogni giorno ci scontriamo. Tutte queste cose si sperimentano anche a Caiazzo.